+4,7% di fatturato dal 2023 al 2024 (al di sopra della performance del mercato mondiale delle costruzioni, attestata al 2,3%) e +60% dal 2020: con questi numeri Mapei, la multinazionale italiana guidata da Veronica Squinzi e Marco Squinzi, conferma il trend positivo che l’ha vista crescere negli ultimi cinque anni.
Protagonista nel settore della chimica per l’edilizia, Mapei ha chiuso il 2024 con un fatturato consolidato di 4,4 miliardi di euro, investimenti per 213 milioni di euro e 106 impianti produttivi, ognuno dotato di un laboratorio di controllo qualità, con una presenza capillare in 59 Paesi di tutto il mondo, oltre 13 mila dipendenti e 98 società consociate, incluse quelle di altri marchi internazionali come Vinavil e Polyglass.
Lo scorso anno Mapei ha inaugurato nuovi stabilimenti in Portogallo (Cantanhede), Regno Unito (Speke) e Danimarca (Vejen), trasferito la sede di Olomouc (Repubblica Ceca) in una nuova struttura più moderna e aperto la prima sede in Cile, a Pudahuel.
Grazie a una rete di 38 centri di ricerca in cinque continenti, coordinati dal centro corporate di Milano, Mapei formula e propone prodotti e sistemi di qualità, durevoli e attenti alle problematiche ambientali.
Nella geografia del gruppo si conferma preponderante l’incidenza dell’Europa che nel 2024 contribuisce al 52% del fatturato globale, notevole anche l’apporto del Nord America stabile al 31%.
«Il Gruppo ha registrato un incremento di fatturato in ogni area geografica in cui opera con crescita a doppia cifra in America Latina (+28,3%), e a tripla cifra in Medio Oriente (+130,3%), un’area in grande espansione dove stiamo investendo molto. Nel 2024 abbiamo acquisito l’azienda saudita Bitumat, leader nei sistemi impermeabilizzanti, e inaugurato il nuovo stabilimento di Tabuk, nella regione di Neom, dove sono in corso numerosi progetti di sviluppo previsti dal piano Vision 2030», dichiara Veronica Squinzi, amministratore delegato Mapei.
«Ci siamo rafforzati anche in Europa con le acquisizioni di Wecal nei Paesi Bassi e Wykamol nel Regno Unito, aziende specializzate rispettivamente in soluzioni per l’isolamento e le coperture e in sistemi per l’impermeabilizzazione e la ristrutturazione, e in Nord America con l’acquisto della canadese Diaplas, specializzata in profili e finiture per pavimenti e pareti».
«La nostra formula per perseguire l’obiettivo di una crescita continua e responsabile è semplice: cogliere le opportunità esterne e, al tempo stesso, continuare a investire nelle nostre aziende, fabbriche, uffici, per rafforzare la nostra capacità produttiva ed essere vicini ai nostri clienti e ai grandi progetti infrastrutturali», aggiunge Marco Squinzi, amministratore delegato Mapei.
«Nel corso del 2024 abbiamo acquisito immobilizzazioni materiali per oltre 213 milioni di euro, e anche per il prossimo anno proseguiremo su questa strada. Nel primo trimestre del 2025 abbiamo già aperto un nuovo stabilimento produttivo in Egitto, nella Città del decimo Ramadan, a nord ovest del Cairo per rispondere alle crescenti richieste del mercato in Nord Africa. In Italia abbiamo inaugurato una nuova sede commerciale a Catania mentre proseguono i lavori del nuovo sito di Modugno, vicino a Bari, che sarà a pieno regime a partire dal 2026», prosegue Marco Squinzi.
«Nel nostro futuro vediamo ancora una crescita equilibrata, fatta di acquisizioni strategiche per entrare in nuove aree o migliorare la nostra offerta e, soprattutto, investimenti nei nostri asset in Italia e all’estero. Questo è il nostro modo di fare impresa, migliorando un passo alla volta insieme al mercato, alle nostre persone e alle comunità dove operiamo, perché nessuno cresce da solo», conclude Veronica Squinzi .
I dilemmi della transizione green
Possiamo permetterci un’Europa green? Dopo gli anni in cui la sensibilità per l’ambiente ma, badate bene, anche ai consumi di energia, erano al primo posto, sull’onda della spinta delle nuove generazioni sensibili a questo tema e della necessità di affrancarsi dal gas russo, l’entusiasmo sembra essersi spiaggiato come una balena che ha sbagliato rotta. Ovviamente, nessun politico si sogna di dire che se ne impippa di inquinamento e consumi di gas per riscaldare le case. Ma, nei fatti, il «drill baby drill» (perfora, baby, perfora) di Donald Trump, riferito all’estrazione di petrolio, è fonte di ispirazione per molti anche in Europa. A dispetto dei disastri provocati da un clima sempre più estremo.
Nei fatti la Commissione di Bruxelles sembra avviata a ridimensionare o cancellare vari pezzi del Green Deal, nome che si riferisce a un insieme di direttive sul clima (tra cui Case green) approvato nella scorsa legislatura. Un esempio del clima politico meno propenso ai temi ambientali è quello che riguarda la direttiva Green Claims, che avrebbe vietato alle aziende politiche di greenwashing, cioè farsi pubblicità vantando compatibilità ambientali che non sono verificate. La direttiva bocciata introduceva la possibilità di controlli. Il governo italiano si è pronunciato contro e l’approvazione è saltata. La Commissione, inoltre, ha rinviato di un anno l’applicazione di una legge contro la deforestazione, di due anni il limite per le aziende automobilistiche di adeguarsi agli obiettivi sulla riduzione delle emissioni inquinanti.
Ma sarebbe ingiusto additare i contrari al Green Deal e i tentennamenti della Commissione solo come una rivincita degli inquinatori. Perché sulla transizione green pende l’interrogativo espresso all’inizio: possiamo permetterci il Green Deal? L’esigenza di abbassare, o ancora meglio cancellare, le emissioni di Co2 e, più in generale, l’inquinamento provocato da vetture e abitazioni è un imperativo categorico soprattutto nei confronti delle nuove generazioni. Ma è inutile girarci introno: le auto elettriche e le riqualificazioni degli edifici costano.
Rimangono, per ora, le linee direttrici decise dal precedente Parlamento europeo, su input della Commissione: blocco della produzione di motori termici a partire dal 2035 e riqualificazione energetica di almeno una parte (classe G) degli edifici per il 2033. Traguardi ideali. Gli sforzi economici e l’impegno per decarbonizzare l’Europa, cioè il 6,7% delle terre emerse della Terra, sono un obiettivo velleitario? Il Vecchio Continente si trova di fronte a un bivio: non fare nulla, perché il resto del mondo, che occupa il 93,3% della superficie terrestre non fa nulla, o dare il buon esempio. Nel 2023, l’Unione Europea ha prodotto il 6,4% delle emissioni globali di Co2 ed è al quarto posto tra i maggiori inquinatori dopo Cina, Stati Uniti e India. Migliorare la classe G, che comporta un intervento contestato in partenza da almeno una parte politica e dalla resistenza di chi non ha soldi da investire, è una soluzione? Prendiamo il caso delle auto: un motore elettrico è, sulla carta, meno inquinante di un motore a gasolio. Lo è anche produrre l’elettricità per ricaricare le batterie? E che dire della produzione degli accumulatori, che inevitabilmente renderà la filiera dell’auto ostaggio di produttori di materie prime e terre rare come Congo e Cina, così come lo è stata finora l’Europa con le forniture di gas russo? Gli stessi dilemmi si possono applicare per lo stop applicato alle caldaie a gas condominiali, anche quelle finite nel mirino della politica ambientale europea. Insomma, la ricetta per vivere green è complicata e l’Europa rappresenta solo una piccola parte del problema. Eppure da qualche parte bisogna pur cominciare.