Oltre la metà (53%) dei consumatori a livello globale acquista sempre più prodotti a marca del distributore, i private label. In Italia questa tendenza si rafforza ulteriormente, con un incremento di +3% e raggiungendo il 56%. Parallelamente, i dieci principali brand a livello mondiale hanno registrato una ripresa delle vendite nel 2024, segnale che la competizione tra retailer e produttori nel settore del largo consumo resta vivace. La sfida per conquistare l’attenzione dei consumatori si gioca sempre più sugli scaffali, dove la capacità di differenziarsi e creare valore diventa cruciale. È quanto emerge dal nuovo report Finding Harmony on the Shelf: 2025 Global Outlook on Private Label & Branded Products, studio di NielsenIq, società specializzata in ricerche di mercato. Il report analizza le tendenze che stanno guidando la crescita globale del settore, offrendo una panoramica dettagliata su 25 mercati, inclusa l’Italia.
Lo studio non si limita a fotografare il cambiamento nell’atteggiamento degli acquirenti verso i prodotti a marca del distributore e di marca, ma approfondisce anche le dinamiche che influenzano le scelte di consumo. A completare il quadro, il report fornisce indicazioni strategiche per retailer e produttori che intendono intercettare efficacemente i bisogni dei consumatori in un contesto macroeconomico in continua evoluzione.
Dallo studio emerge inoltre un’evoluzione significativa nella percezione della qualità dei prodotti a marchio del distributore, in particolare, in Italia. Il 69% dei consumatori italiani li considera ormai una valida alternativa ai prodotti di marca, mentre il 46% li ritiene di pari o superiore qualità rispetto ai brand tradizionali (a fronte del 51% a livello globale). Quasi due terzi (60%) dei consumatori globali si fida delle marche del distributore, trend valido anche in Italia (61%). Tuttavia, la disponibilità a pagare un prezzo più elevato per i prodotti private label resta contenuta: solo il 28% degli italiani si dichiara disposto a farlo.
«Il successo nell’attuale panorama della distribuzione non è un gioco a somma zero, ciò significa che vi è spazio di crescita per tutti gli attori del mercato. Infatti, le private label e i prodotti di marca possono non solo coesistere, ma anche crescere insieme, dando vita a uno sviluppo ulteriore che si riflette sulla tipologia di prodotto e sulla spesa generazionale. In Italia, dove gli acquirenti sono sempre più aperti a esplorare entrambi i tipi di marchio nelle varie categorie, l’opportunità è visibile. La strada più efficace è quella della collaborazione: quando retailer e produttori uniscono le forze, possono sfruttare i punti di forza complementari e rispondere all’evoluzione delle esigenze dei consumatori, costruendo un futuro di crescita condivisa e sostenibile», commenta Enzo Frasio, amministratore delegato di Niq Italia.
Secondo la ricerca, iI 47% degli italiani afferma di comprare prodotti di marca preferendoli alle alternative più economiche. Sopra la media i Millennial con il 53%, leggermente sotto media i Boomer (46%) e la GenZ (45%). Emerge dunque un atteggiamento positivo dei consumatori verso i prodotti di marca, sentimento confermato dai dati di vendita a livello mondiale. Secondo il tracking Niq Retail Measurement Services, le vendite dei 10 principali marchi globali sono cresciute del +4,8%, superando leggermente la crescita annuale delle vendite dei prodotti private label (+4,3%)
Il rebus italiano dell’energia
A tre anni dall’invasione russa dell’Ucraina il problema numero uno della nostra economia rimane il costo dell’energia. La guerra scatenata da Valdimir Putin ha ridotto e, in prospettiva, azzerato le forniture di gas russo. Ma prima ancora che avvenisse l’attacco alla popolazione ucraina non è che l’energia in Italia costasse poco. In ogni caso, gli italiani pagano le bollette elettriche più care d’Europa. I dati appena pubblicati dal Gestore Mercati Energetici sono impietosi. Anche se lo scorso anno, rispetto al 2023, il costo medio per megawattora è sceso a 108,52 euro (-15%), rimane sempre abnorme rispetto a quello di altri paesi europei. In Francia si paga 58,02 euro per megawattora, quasi la metà. Senza parlare dei paesi scandinavi, dove l’elettricità costa solo 38,06 euro per megawattora, quasi un terzo di quanto paghiamo noi. Ma anche senza paragonarci alla Scandinavia, dove eolico e nucleare danno il maggiore contributo, in Spagna siamo sui 63,04 euro, in Austria il costo è di 76,05 euro e in Germania 81,54 euro. E se in Italia nei 12 mesi passati abbiamo potuto contare su un relativo ribasso, negli altri paesi lo sconto è stato di gran lunga maggiore; -40,1% in Francia, -36,2% nei paesi nordici.
Che fare? Il governo ha riesumato il nucleare bandito anni fa da uno sciagurato referendum, ma per costruire le centrali ci vogliono anni, tanti soldi e, soprattutto, il consenso dei cittadini accanto ai quali sorgeranno. Quale comune italiano darà il benestare alla costruzione di un impianto nucleare nel suo territorio? Quanti comitati di cittadini si formeranno per impedire i cantieri? Quello che avviene per le energie alternative è un esempio. L’aumento della produzione di energia da eolico e fotovoltaico deve sempre fare i conti con il fenomeno nimby, sigla anglosassone che sta per not in my backyard, cioè non nel mio cortile: state alla larga da dove abito. A nessuno, in effetti, piace abitare di fronte a una pala eolica, senza dimenticare che il panorama del territorio italiano è anche una fonte di introiti dal turismo. Il risultato è noto: i progetti per costruire nuove centrali elettriche alimentate dal sole e dal vento hanno superato i 180 mila megawatt e vanno verso i 200 mila megawatt. Ma non tutto fila liscio: buona parte dei progetti è rimasta bloccata.
Ci sarebbe anche qualche risorsa tradizionale da sfruttare, ma anche quelle incontrano ostacoli: il petrolio della Basilicata è quello che è, e comunque i progetti di ricerca sono bloccati per i timori di danni ambientali. Oltre al fotovoltaico, che però va gestito (chiedere alla Spagna se è facile), resta solo il gas dell’Adriatico. Il metano, però, lo abbiamo lasciato alla Croazia, che trivella allegramente in mezzo al mare, mentre in Italia è stato indetto un referendum (era il 2016, sembra un secolo fa) contro lo sfruttamento dei bacini. Anche se in quell’occasione ha votato soltanto il 31,19% degli elettori, con palese disinteresse di quasi il 70% degli italiani, in Parlamento è stato come se avesse vinto il partito no-triv. Intanto la bolletta sale.