Salviamoci dalle acque torbide del Mose

Più che un sistema per salvarci dalle acque, il Mose in questi giorni sembra una diga incapace di contenere un fiume incontrollato di denaro e di fondi pubblici destinati, invece che a opere e a interventi per la mitigazione dell’impatto dell’acqua alta a Venezia, a ben altri e molto meno nobili scopi. E le notizie che da alcuni giorni rimbalzano sui giornali, con l’inizio delle trascrizioni delle intercettazioni e delle deposizioni, stanno trasformando la lettura dei quotidiani in una sorta di romanzo di appendice, dove ogni giorno ci domandiamo quali nuovi personaggi entreranno nella vicenda. E il passaggio dall’appendice all’appendicite è immediato. Il mal di pancia dell’opinione pubblica è non solo palpabile, ma anche tangibile, e la crisi acuisce ulteriormente questi giusti sentimenti negativi. Che pesano e amplificano il danno. Perché il danno non è solo economico, ma è anche etico e di immagine. L’Italia è al centro dell’attenzione del mondo oggi, con Expo 2015, e da sempre con Venezia, patrimonio dell’umanità visitato ogni anno da oltre 20 milioni di turisti. L’immagine di un paese che vuole rinnovarsi, con l’evidente sforzo che in tal senso sta cercando di promuovere l’attuale Governo, viene invece di colpo inquinata da questi nuovi scandali che sono rilevanti non solo per le questioni etiche e penali, ma anche per la dimensione del fenomeno e i suoi risvolti. Perché gli elementi di corruzione e di distrazione di fondi pubblici per circa 1 miliardo di euro a Venezia negli ultimi 10 anni (stando alle dichiarazioni di Baita, ex amministratore della Mantovani, e di Mazzacurati, ex presidente del Consorzio Venezia Nuova) riguardano un sistema di gestione del potere che ben poco ha a che fare non solo con le regole di mercato e con la trasparenza, ma anche con quelle che si dovrebbero considerare le regole della democrazia e della sua rappresentatività. Ma c’è un fatto diverso rispetto alla prima Tangentopoli. In quel caso erano i partiti a gestire la corruzione e la distrazione dei fondi. Qui sembra tutto più giocato sulle persone, sui singoli soggetti. Certo, anche in questo caso i partiti non potevano non sapere. Ma l’elemento rilevante è che, come nella cricca che ha gestito gran parte dei fondi del 150° d’Italia e il post terremoto in Abruzzo, anche in questo caso sembra emergere un sistema di persone che per lungo tempo hanno occupato sempre gli stessi posti. Forse sta anche in questo l’accusa del giudice Nordio, che afferma che lo scandalo del Mose è forse anche più grave della prima tangentopoli. Perché non dobbiamo dimenticare che il Mose è l’opera pubblica più costosa mai realizzata, affidata senza gara ad un concessionario unico del Ministero delle Infrastrutture e del Magistrato alle Acque. Il Consorzio Venezia Nuova è una anomalia da decenni denunciata da tanti, non ultimo l’ex sindaco Massimo Cacciari. E’ costituito da grandi imprese di costruzione italiane, cooperative e imprese locali che, in assenza di gare, si trovano ad aver assegnati lavori per i quali, alla fine, non vi sono adeguate procedure di valutazione e controllo. Basti ricordare che il Mose non ha avuto una «Via», una Valutazione di impatto ambientale. E soprattutto non vi siano procedure di rendicontazione puntuale della spesa, come avviene ad esempio per i fondi europei. È un sistema che non fa crescere le nostre imprese, che non fa del bene al mercato, che penalizza tutte le altre imprese che ogni giorno si trovano a fare i conti con una burocrazia che ne limita l’operatività. E più la burocrazia è invadente, più si generano possibilità di corruzione, necessità di oliare gli ingranaggi. Questa inchiesta può fare del bene. Può contribuire a rimettere al centro le regole, quelle che ci sono, senza riscriverne di nuove. Passare dalla straordinarietà all’ordinarietà della gestione, dalle procedure eccezionali a sistemi controllabili e controllati (e gli strumenti ci sono) è il primo passo da compiere, per salvarci da queste acque. mose-venezia4 mazza+ orsoni

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