Migliorare l’efficienza energetica di una costruzione? «Non è più sufficiente». L’intervista a Carlo Battisti (Living Future Europe)

Come è possibile creare comunità socialmente giuste, culturalmente ricche e rigenerative per l’ambiente? 

Una premessa: a ricordarci quanto sia cruciale non perdere di vista questa battaglia, riportiamo la testimonianza di Debra Roberts, professoressa e PhD in Biogeografia Urbana e capo dell’Unità Iniziative per Città Sostenibili e Resilienti a Durban, in Sud Africa, durante la presentazione dell’ultimo rapporto di Ipcc (International Panel on Climate Change), lo scorso febbraio.

«Insieme, la crescente urbanizzazione e i cambiamenti climatici creano rischi complessi, specialmente per quelle città che già sperimentano una  crescita urbana scarsamente pianificata, elevati livelli di povertà e disoccupazione e la mancanza di servizi di base», ha ammonito Roberts. «Ma le città offrono anche opportunità di azione per il clima: edifici verdi, forniture affidabili di acqua potabile ed energia rinnovabile, sistemi di trasporto sostenibili per collegare aree urbane e rurali. Sono tutte iniziative che possono portare a una società più inclusiva e più giusta».

Per tornare alla domanda iniziale, una delle voci più autorevoli nel panorama internazionale è proprio quella di Carlo Battisti, ingegnere e project manager ma, soprattutto, presidente di Living Future Europe, organizzazione senza scopo di lucro partner europeo dell’International Living Future Institute, con sede a Bolzano, promotrice nel mondo di un modello di edilizia che aspira ad andare oltre il concetto di sostenibilità, puntando a un modello rigenerativo.

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Carlo Battisti

Ma perché, dunque, è necessario alzare l’asticella della sostenibilità così in alto? «Secondo il report di Global Alliance for Buildings and Construction, Iea e Unep del 2019, a livello mondiale stiamo costruendo e ristrutturando al ritmo di una nuova New York City ogni 34 giorni. Una tendenza che sembra destinata a protrarsi almeno fino al 2060».

Ecco, allora, come la filiera delle costruzioni può porsi in questa sfida, secondo il presidente di Living Future Europe.

Domanda. A quali aspetti il mondo delle costruzioni deve assolutamente prestare attenzione per centrare gli obiettivi di neutralità climatica fissati dalle Nazioni Unite e, per restare in Europa, anche dal Green Deal?
Risposta. Le sfide che abbiamo individuato per il mondo delle costruzioni sono riconducibili a due temi principali: il primo è quello della riduzione delle emissioni di anidride carbonica e il secondo, invece, riguarda i materiali. Questi ultimi hanno una valenza centrale non soltanto in un’ottica di circolarità e di contenimento di CO2 in fase di produzione e trasporto, ma anche per le sostanze chimiche che ne caratterizzano la composizione. L’obiettivo sicuramente più sfidante è stato posto dall’Unione Europea, che vorrebbe ridurre le emissioni di carbonio del 55% entro il 2030, rispetto ai valori del 1990.

D. Qual è la portata di questa sfida?
R. In sostanza, significa che in dieci anni dobbiamo tagliare una quantità di emissioni di gas serra, di poco inferiore a quanto siamo riusciti a ridurre in un arco di trent’anni. Secondo l’Ue, per raggiungere questo obiettivo si può ricorrere all’energia nucleare e al gas naturale. I nostri protocolli di sostenibilità per gli edifici, però, non ammettono queste fonti: il gas naturale, perché è anch’essa una fonte fossile e in quanto tale produce gas serra. L’energia nucleare, perché lascia scorie radioattive a fine vita e anche perché i rischi legati a incidenti sugli impianti producono effetti devastanti, il cui impatto si protrae nei decenni. Il problema è che si progetta sempre con una visione molto ridotta e limitata al breve periodo, senza immaginare che l’impatto di quello che facciamo possa essere davvero a lungo termine. L’approccio di Ilfi, invece, mira a ridurre innanzitutto il consumo di risorse, in questo caso energetiche, e coprire il fabbisogno restante dalle fonti rinnovabili.

D. Ilfi, infatti, certifica gli edifici tra i più sostenibili al mondo. Può fare degli esempi?
R. Il nostro primo progetto certificato Zero Carbon è la sede di Google a Londra. Altri progetti riguardano aziende come Salesforce, impresa leader nei sistemi CRM e cloud computing, la cui nuova sede a Dublino sarà certificata con il protocollo Zero Carbon. Tra le fila delle aziende che hanno scelto di certificare le loro sedi con i nostri protocolli, per citare qualche esempio, ci sono Microsoft, Amazon e Prologis, il più grosso player mondiale per edifici di logistica. Quest’ultimo ha recentemente completato, vicino a Parigi, un centro logistico di 100 mila metri quadrati registrato per ottenere la certificazione Zero Carbon e da poco ha registrato un altro progetto, un nuovo hub logistico questa volta nei Paesi Bassi, vicino a Eindhoven, attualmente in fase di progettazione.

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Distretto logistico Prologis a Moissy (Francia)

D. Quali sono i requisiti della certificazione Zero Carbon e come si ottiene?
R. Lo standard della certificazione Zero Carbon esige che il 100% dell’uso di energia operativa associato al progetto, definito operational carbon, sia compensato da nuova energia rinnovabile prodotta onsite o offsite, che rispettivamente indicano l’energia prodotta direttamente sul luogo del progetto o da una utility, entrambe utilizzabili in proporzioni variabili. L’importante, però, è che l’energia prodotta sia riconducibile a quella particolare costruzione, per quantificarla esattamente ed essere sicuri che copra il fabbisogno specifico del progetto. L’altro pilastro riguarda invece il cosiddetto embodied carbon, cioè le emissioni di carbonio associate alla costruzione del progetto e dunque ai materiali impiegati, che a sua volta deve essere compensato al 100%.

D. In che modo è possibile ottenere questo risultato?
R. Sicuramente grazie alla scelta di materiali caratterizzati da una bassa impronta in termini di emissioni di CO2, sia per la struttura primaria dell’edificio, quindi le fondazioni, la struttura e l’involucro, sia per gli altri materiali che compongono le finiture. Grazie a database dedicati, in fase di progetto è possibile calcolarne l’impatto e il valore complessivo del progetto deve infine attestarsi al di sotto dei 500 chilogrammi di CO2 per metro quadro, 500 kg-CO₂e/m, per essere precisi. L’ammontare delle emissioni risultanti al termine del calcolo deve comunque essere compensato secondo programmi internazionali volontari approvati da Ilfi.

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Vandusen botanical
garden visitor centre,
Vancouver, BC, Canada (certificato LBC)

D. Insomma, porre la massima attenzione a materiali ed energia, per ottenere un edificio neutrale non solo nella sua fase operativa, ma anche in quella di costruzione.
R. Esatto. L’edificio continua a essere monitorato su dati reali per 12 mesi e verificato da un ente terzo, una prassi che lo rende il sistema più stringente a livello internazionale. Stiamo ricevendo molte richieste per questa certificazione, soprattutto dalla Gran Bretagna, dove abbiamo anche registrato il primo progetto certificato Living Building Challenge, l’altro protocollo di sostenibilità promosso da Ilfi che si ispira anche ai principi di progettazione biofilica indicati da Stephen Kellert, professore emerito di Ecologia Sociale presso l’università di Yale, al quale si deve il lavoro di concettualizzazione della progettazione biofilica. Altre richieste giungono da Spagna, Francia e Irlanda. Soprattutto nel Regno Unito, ogni grande progetto parte proprio da questa domanda: come riusciamo a realizzare la nostra idea in modo che sia neutrale dal punto di vista delle emissioni di CO2? Sono proprio i committenti a rivolgersi così ai progettisti. I quali, a loro volta, si rivolgono a noi.

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6 Pancras Square (Londra)

D. E in Italia?
R. In Italia, purtroppo, siamo ancora a porci la domanda, perché dovrei scegliere di costruire un edificio a emissioni zero? Sicuramente per ora i protocolli ZeroCarbon e Living Building Challenge sono maggiormente diffusi dove c’è un approccio più anglosassone, come negli Stati Uniti. ZeroCarbon è la prima certificazione (risale al 2018) sul tema, ed è riconosciuta da associazioni indipendenti come quella più efficace e utile a decarbonizzare l’ambiente costruito. L’esigenza attuale, infatti, va proprio in questa direzione: rispetto a qualche decennio fa, quando sono comparsi i primi protocolli di sostenibilità, oggi non è più sufficiente limitarsi a migliorare l’efficienza energetica di una costruzione. Occorre, invece, progettare edifici virtuosi dal punto di vista delle emissioni complessive di CO2. E, in questo senso, i materiali hanno un ruolo di primo piano. Si tratta di un vero e proprio cambio di paradigma e i grossi studi di progettazione mondiale, specialmente quelli di Regno Unito e Stati Uniti, hanno iniziato seriamente a ragionare in questi termini.

D. Parlando dunque di materiali, Ilfi promuove Declare, un’etichetta per garantire trasparenza sulla composizione dei prodotti certificati. Di che cosa si tratta?
R. Declare è una piattaforma di trasparenza e database di prodotti, pensata per fornire  all’architetto, progettista e committente informazioni chiare e precise sulla scelta dei materiali, con un dettaglio di peso che arriva fino a cento parti per milione (cioè lo 0,01%) di ciascun componente chimico presente. Le sostanze considerate nocive sono comprese in un elenco definito Red List e la loro eventuale presenza risulterà evidente sull’etichetta, che classifica il prodotto secondo tre livelli di salubrità. Attualmente, abbiamo circa 800 etichette Declare in tutto il mondo, di cui circa 170 in Europa: rispetto allo scorso anno, solo nel Vecchio continente si sono aggiunti un centinaio di prodotti. Declare non è solo un utile strumento per progettare ambienti salubri ma, a livello più ampio, nasce proprio per far fronte al problema, gravissimo, dell’inquinamento chimico.

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Isopan GreenROOF (Gruppo Manni, etichettato Declare)

D. In che cosa consiste questa problematica?
R. Secondo alcuni studi pubblicati, esiste un numero elevatissimo, e in costante crescita, di ingredienti chimici utilizzati nelle industrie, di cui spesso ignoriamo sia il reale impatto sulla salute, sia i possibili effetti combinati sulla salute e l’ambiente naturale, che non riesce a metabolizzare queste sostanze create artificialmente. Si tratta di un problema gravissimo: gli effetti dell’inquinamento dovuto alla presenza di sostanze chimiche, e potenzialmente tossiche, produce ancora più vittime di quante ne abbia prodotte la pandemia. Si tratta di un tema molto ampio e tutt’ora aperto. Purtroppo, c’è ancora una certa riluttanza da parte delle industrie a dichiarare la composizione chimica dei propri prodotti e sistemi.

D. Esistono però norme che regolamentano l’uso di sostanze chimiche permesse…
R. In Europa il regolamento Reach (Registration, Evaluation, Authorisation and Restriction of Chemicals, ndr) impone di garantire la sicurezza dal punto di vista chimico di ciascun prodotto per uso industriale o quotidiano. Il vero limite è, però, che la scienza ha fornito risposte certe soltanto su un numero limitato di sostanze. Un altro grande equivoco è affermare genericamente che un prodotto sia a norma: è noto che spesso le regole arrivano troppo tardi, come è successo, per menzionare il caso forse più eclatante, con l’amianto. In Italia, da quando è stato rilevato il problema legato all’uso di questa sostanza al suo divieto sul mercato, sono passati più o meno 20 anni. E il problema ne riguarda molte altre ancora presenti in edilizia.

D. Parliamo ora di progettazione biofilica, cioè che punta a ripristinare un rapporto tra uomo e natura anche all’interno degli ambienti costruiti. È ancora un trend in crescita?
R. La biofilia continua ad affermarsi, non soltanto in termini di benessere all’interno delle nostre abitazioni, che è un fattore sicuramente importantissimo ma, su più larga scala, anche in termini urbanistici per il miglioramento della vita all’interno delle città, dove molti professionisti dell’architettura, per i grandi progetti, si ispirano proprio a questa ipotesi. Una testimonianza interessante è quella di Stefano Mancuso, noto botanico e divulgatore: secondo lui, l’unica chance che abbiamo per sovvertire l’avanzamento della crisi climatica è procedere con convinzione alla piantumazione dei nostri territori. Secondo il botanico, se in tutto il mondo si piantasse l’equivalente della superficie degli Stati Uniti con nuovi alberi, potremmo tornare ai livelli di emissioni di CO2 preindustriali, cioè intorno alle 350 parti per milione. Non si tratta di qualcosa di impossibile, se pensiamo che piantare alberi non è un’attività che richiede particolari tecnologie e impegni politici e finanziari complessi. L’approccio biofilico si integra in questo discorso su due punti diversi: i benefici del verde sulla salute, anche psicologica, delle persone, l’assorbimento della CO2 e nelle città la riduzione del cosiddetto effetto isola di calore, dunque l’abbassamento delle temperature, che a sua volta produce la riduzione del fabbisogno energetico estivo per il raffrescamento.

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Stefano Mancuso

D. Proprio durante la pandemia ci siamo resi conto di come gli ambienti in cui viviamo e lavoriamo spesso sono troppo carenti da questo punto di vista…
R. Se negli ultimi decenni avevamo fatto tutto il possibile per disconnetterci dalla natura, adesso questa tendenza per fortuna si è invertita. Uno dei cavalli di battaglia del Living Building Challenge, infatti, è quello dell’agricoltura urbana. Non si tratta solo di una questione bucolica o di ambientalismo naif: la possibilità di produrre sul posto almeno una parte della produzione agricola necessaria, comporta diversi vantaggi sociali e ambientali. Secondo il nostro protocollo, in base alla superficie del progetto e al contesto abitativo in cui è inserito, se in una piccola o grande città o in campagna e via dicendo, bisogna prevedere una piccola quantità di superficie per le attività agricole anche attraverso sistemi verticali. Nella nuova versione del protocollo, si può anche scegliere come opzione sostitutiva alla coltivazione in loco, la possibilità di accedere a un mercato settimanale di prodotti alimentari a chilometro zero, pensata soprattutto per quei contesti fortemente urbanizzati, come New York, dove è particolarmente difficile introdurre principi di urban farming. Anche con questa attenzione si riduce una parte delle emissioni dovute alla produzione e al trasporto di prodotti alimentari nei centri abitati, oltre a riconnettere i cittadini con il verde e i cicli naturali.

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D. Come è strutturato il protocollo Living Building Challenge?
R. Questo protocollo immagina l’edificio come un’entità efficiente e bella, come lo è un fiore nella natura. Infatti, individua sette aree di performance, rappresentate idealmente da altrettanti petali: Place, Water, Energy, Health + Happiness, Materials, Equity e Beauty. Nell’ultima versione del protocollo, la 4.0, la progettazione biofilica si trova come imperativo proprio nell’ultimo petalo, quello della bellezza, insieme agli imperativi sulla formazione e l’ispirazione. Su questi aspetti c’è sempre la nostra massima attenzione e notiamo come la progettazione biofilica stia anche prendendo una propria strada, nel senso che ci sono architetti e progettisti che liberamente si stanno ispirando ai principi di Stephen Kellert, i sei elementi e più di settanta attributi che noi chiediamo di applicare negli edifici Living Building Challenge.

D. Quali sono le prossime attività di Living Future Europe in agenda?
R. Quest’anno abbiamo in programma di riproporre, in autunno, il Biophilic Camp in Alta Val di Non, che nel 2020 era rimasto sospeso a causa della pandemia. Un’altra attività che stiamo organizzando riguarda la formazione, la seconda edizione della nostra Masterclass. La prima edizione è andata molto bene: a partire da fine settembre del 2021 fino a dicembre dello stesso anno, ha visto la partecipazione di 15 professionisti provenienti da tutta Europa, di cui uno dall’Italia. Sono state 12 settimane di formazione, con 30 ore in aula di lezione frontale e un’ora di confronto settimanale tra gli studenti per verificare l’apprendimento del programma, secondo le logiche dell’agile management. Alla fine del percorso, i partecipanti hanno dovuto presentare un project work. Inoltre, all’interno di questo programma abbiamo organizzato un evento a Glasgow durante la Conferenza sul clima della Cop 26, un workshop con una decina di esperti che hanno presentato alcuni concetti innovativi che si stanno aprendo in questo settore. Un’altra cosa molto carina…

D. Che cosa?
R. Abbiamo fatto anche un biophilic tour a Stirling, a circa mezz’ora di treno da Glasgow, nelle colline intorno al castello della cittadina: una passeggiata immersi nella natura che ci ha permesso di soffermarci su vari aspetti di nostro interesse. Tutti ci ricordiamo di questa passeggiata, che è stata particolarmente rigenerante e ha contribuito a unire ulteriormente il gruppo di partecipanti. Adesso stiamo lavorando alla seconda edizione della masterclass, che sarà da fine settembre a metà dicembre e anche quest’anno intendiamo essere presenti alla annuale Conferenza sul clima che è prevista a Sharm El Sheik. Insomma, il programma si preannuncia anche quest’anno molto ricco e stimolante, con una passeggiata biofilica nel deserto del Sinai.

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