Italia malata di nanismo. E nella distribuzione…

Il Centro Studi YouTrade, nell’analisi dei Bilanci delle costruzioni 2019 pubblicata a dicembre lo aveva sottolineato: le dimensioni contano, non è più tempo di «piccolo è bello». Ma la crisi innescata dal coronavirus ha riproposto bruscamente il tema: sono le piccole imprese a soffrire di più i postumi dell’epidemia, e saranno le micro aziende a rischiare la loro stessa sopravvivenza nel presente e nel prossimo futuro. Già prima che il «carogna virus» colpisse l’economia, in ogni caso, un’analisi di Enrico D’Elia, senior economist al Dipartimento delle Finanze del ministero dell’Economia, aveva messo il dito nella piaga con uno studio che ha preso in esame proprio l’aspetto dimensionale delle aziende italiane, e non solo nella filiera delle costruzioni. Insomma, viviamo a Nanitaly.

Gli ostacoli

«I dati indicano che il nanismo dimensionale delle imprese italiane è il principale ostacolo a un aumento della produttività. Sarebbe necessario un progetto di sviluppo che spinga le imprese ad aggregarsi e a crescere contando su prospettive meno incerte», ha scritto l’economista. Intendiamoci, non è una novità. Due anni fa, per esempio, era stato il quotidiano britannico Financial Times a mettere il dito nella piaga con un’analisi che sintetizzava i pareri di un panel di economisti. Secondo il giornale economico, la bassa produttività in Italia, che è il fattore che maggiormente riduce le possibilità di crescita, dipende anche dal fatto «che il 95% delle aziende italiane ha meno di dieci dipendenti. La piccola dimensione limita gli investimenti in ricerca e sviluppo oltre che nel capitale umano e, dunque, la competitività nei mercati globali». A questo si aggiunge un altro aspetto, in qualche modo correlato: «Anche le aziende con dimensioni maggiori hanno responsabilità nella mancata crescita, e questo a causa di una diffusa gestione familiare poco aperta ai cambiamenti». Un esempio di piccole dimensioni che frenano lo sviluppo: in Italia meno di un’azienda su dieci, escluse le società finanziarie, vende i propri prodotti online. Secondo le rilevazioni di Eurostat, nella Ue peggio di noi fanno solamente Romania e Bulgaria. L’idea che «piccolo è bello», insomma, sembra lontana.

Tra il 2013 e il 2018 le imprese italiane hanno occupato mediamente 3,8 dipendenti, contro i 5,8 della media della Ue, i 5,1 della Francia, i 4,5 della Spagna e addirittura gli 11,7 della Germania
Tra il 2013 e il 2018 le imprese italiane hanno occupato mediamente 3,8 dipendenti, contro i 5,8 della media della Ue, i 5,1 della Francia, i 4,5 della Spagna e addirittura gli 11,7 della Germania

Giochi senza frontiere

In un’economia sempre più globalizzata (trend che non sarà interrotto dal coronavirus o dalle politiche autarchiche) le imprese grandi e piccole devono confrontarsi con un mercato che non è limitato ai confini nazionali. Per questo gli ultimi dati di Eurostat sulle imprese dell’area Ue che paragonano la realtà produttiva dei diversi Paesi sono importanti. I dati, disaggregati su cinque classi dimensionali e 13 settori, fotografano innanzitutto il numero di addetti. Risultato: tra il 2013 e il 2018 le imprese italiane hanno occupato mediamente 3,8 dipendenti, contro i 5,8 della media della Ue, i 5,1 della Francia, i 4,5 della Spagna e addirittura gli 11,7 della Germania. Questo significa che, in media, in Germania le imprese sono grandi circa tre volte quelle italiane. Che sia anche per questa ragione se il divario medio di produttività in Italia è stato di oltre il 22% minore rispetto alla Francia, di quasi il 15% rispetto alla Spagna e del 16,4% sulla Germania? Dato che la produttività è la capacità di ottenere un risultato superiore ai mezzi impiegati, quindi, gli altri Paesi ci riescono meglio? Certo, una dimensione maggiore comporta anche un’organizzazione del lavoro più efficiente, sinergie interne e, non da ultimo, addetti che non sono parte della famiglia proprietaria, spesso meno sottoposta a regole e vincoli. E questo, ahinoi, comporta che figli e nipoti del proprietario siano spesso meno produttivi dei propri dipendenti. Eppure, a osservare la tabella che sintetizza i dati di Eurostat che, per chi non lo ricordasse, è un ente statistico e non un organismo legato a questa o quella politica o Stato nazionale, si nota che il divario italiano sembra meno associato a una minore produttività del lavoro in sé, cioè a parità di struttura settoriale e dimensionale. In sostanza, i lavoratori italiani messi a confronto con quelli tedeschi negli stessi settori di imprese, non sfigurano. Non solo: il lavoro italiano è mediamente più efficiente della media europea e di quello spagnolo, anche se i risultati dipendono più dalle tecnologie adottate che dalla sola abilità della manodopera.

L’unica via per aumentare la ricchezza di tutti, imprenditori e dipendenti, è quella di aumentare la produttività
L’unica via per aumentare la ricchezza di tutti, imprenditori e dipendenti, è quella di aumentare la produttività

Micro commercio

Se si considera il settore commerciale il fenomeno della frammentazione delle imprese è ancora più accentuato. In Italia sono attive oltre il doppio delle imprese di distribuzione rispetto alla Gran Bretagna, 1,2 volte quelle della Francia e 1,6 quelle della Germania. E ovviamente le dimensioni sono ridotte di consequenza: in Italia mediamente un’impresa commerciale ha tre dipendenti e fattura circa 0,3 milioni di euro in un anno, mentre in Francia il retailer medio ha quattro dipendenti e fattura annualmente circa il doppio (0,6 milioni di euro), e in Germania un punto vendita ha in media dieci dipendenti e genera circa 0,8 milioni di euro all’anno, in Inghilterra 13 dipendenti e vendite annuali di 1,25 milioni di euro.

Le cause

L’analisi condotta sui dati Eurostat da D’Elia giunge a una conclusione: a parità di dimensione e settore, le imprese Italiane sono produttive quanto e più di quelle di altri Paesi. Eppure il dato complessivo le penalizza. E questo perché «le piccole imprese restano inevitabilmente meno efficienti di quelle grandi, e purtroppo da noi le micro-imprese sono molto più numerose che altrove». L’unica via per aumentare la ricchezza di tutti, imprenditori e dipendenti, è insomma quella di aumentare la produttività, e il consegiente valore aggiunto che un’azienda dovrebbe conseguire. «Ma senza una crescita della dimensione media delle singole imprese, un miglioramento della produttività dei lavoratori o del mix produttivo sarebbe dunque insufficiente a rilanciare l’economia italiana», chiosa l’economista. «Unità troppo piccole non possono sfruttare le economie di scala e, soprattutto, non possono adottare tecnologie avanzate, poiché queste richiedono spesso personale molto qualificato che è difficile utilizzare a tempo pieno in una impresa con pochi addetti. Così molte imprese sembrano bloccate in una trappola dimensionale: non possono crescere senza personale qualificato, ma non possono permettersi di acquisirlo perché sono troppo piccole per sfruttarlo a pieno e remunerarlo adeguatamente, come mostra anche la fuga dei cervelli, che trovano solo all’estero condizioni di lavoro favorevoli».

Opinioni diffuse

Come uscire da questa trappola? Non sarà facile, perché le scelte dipendono in promo luogo dalla cultura imprenditoriale e dalle scelte dei singoli nuclei famigliari. E le singole aziende dell’economia reale non desiderano condividere nulla, dalle tecnologie ai clienti. E neppure, tantomeno, la leva del comando. Finora le politiche che incentivano l’aggregazione tra imprese hanno dato risultati deludenti, come il bonus previsto nel decreto Crescita: un’opportunità colta da banche e società finanziarie. I dati, infatti, indicano che nel 2019 le operazioni di fusione e acquisizione hanno registrato una flessione. La sindrome da nanismo è destinata a durare a lungo.

L’analisi dei Bilanci delle Costruzioni

Un paragrafo pubblicato sull’allegrato a YouTrade di dicembre, I Bilanci delle costruzioni 2019, aveva focalizzato il tema delle dimensioni aziendali come cruciale anche per le imprese della filiera delle costruzioni: «Ormai sono alcuni anni che osserviamo come la dimensione di impresa sia un elemento strategico per lo sviluppo delle capacità delle imprese di affrontare i nuovi mercati. La nuova normalità è data dalla fine dell’epoca dei cicli edilizi del passato e dall’attuale stagione di andamenti molto altalenanti e variabili da un mese all’altro, come indicano le statistiche sulla produzione dell’Istat. La riflessione e la conferma sulla dimensione di impresa come fattore strategico emerge con forza anche nell’analisi dell’andamento del fatturato per classi dimensionali delle imprese. Tutte le classi crescono ad eccezione di quella al di sotto dei 15 milioni di euro, che presenta un valore migliore di quello dello scorso anno, ma pur sempre in calo dello 0,6%. Al contrario, tutte le altre classi indicano crescite molto significative e in aumento al crescere della classe dimensionale. Si passa, infatti, da +3,7% delle imprese tra 15 e 50 milioni di euro a +5,3% di quelle tra 50 e 100 milioni di euro, per arrivare a +6,9% di quelle tra 250 e 500 milioni di euro e alla ottima performance di +9,5% di quelle oltre i 500 milioni di euro».

 

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