Inutile nascondersi dietro il Pnrr, vano consolarsi additando la Germania, sciocco buttarla in schermaglie con la politica. La crescita a dosi omeopatiche del Pil è un problema che, prima o poi, qualche governo dovrà affrontare. I dati pubblicati dall’Istat, che indicano un non-aumento del prodotto interno lordo fermo a zero nel terzo trimestre è l’ennesima brutta notizia. Un elettrocardiogramma piatto che fa scendere a +0,4% anche il dato tendenziale. Che cosa sarebbe successo se non ci fosse stata la trasfusione di sangue del Pnrr? Oppure se, per qualche motivo, l’Italia fosse un po’ meno attrattiva per la mandria di turisti che affollano le città (e portano soldi)? In questo quadro anche i dati sull’occupazione si leggono sotto un’altra luce. Perché se i posti di lavoro aumentano, ma la produzione è ferma, significa che chi trova lavoro percepisce uno stipendio basso e non contribuisce con un livello qualitativo che offre margini alti. Insomma, lavoro di bassa qualità. E dire che il Documento programmatico di finanza pubblica dal Governo ha pronosticato «una modesta accelerazione della dinamica congiunturale del Pil nella seconda parte del 2025».

Qual è la malattia, ormai cronica, si cui soffre l’Italia? Una domanda non peregrina, visto che da inizio 2024 la crescita è stata dello 0,7% contro il 2,2% dell’Eurozona. E, vale la pena di sottolinearlo, con la scorta di circa 200 miliardi da spendere che arrivano dall’Europa tramite il Piano di resilienza. Tra parentesi: 122,6 miliardi sono da restituire, seppure a un tasso stracciato. In questi due anni siamo stati dietro al Pil della Francia (1,5%), che pure naviga nella confusione istituzionale, ma anche della Grecia (+3,5%), del Portogallo (3,9%), per non parlare della Spagna (+5,7%).

Dice: tutta colpa del ministro dell’Economia Giancarlo Giorgetti e la sua mania di far quadrare i conti. Ma neppure questo è vero. Non è che gli altri aumentano il Pil perché lo Stato fa più debiti. La Spagna ha un deficit pubblico più basso dell’Italia, Grecia e Portogallo crescono mentre hanno persino raggiunto il pareggio di bilancio. Dunque? Forse uno dei problemi sta nella incapacità di affrontare le stratificazioni geologiche di norme, interessi corporativi (come quelli di tassisti e balneari), scarsa competitività. Un esempio: senza entrare nei pro e contro della separazione delle carriere dei magistrati, non può sfuggire che uno dei problemi per le aziende è la lungaggine dei processi civili. In Spagna un procedimento dura in media tre anni, in Italia cinque e mezzo. Oppure il costo dell’energia, che rende le aziende italiane meno competitive: dopo anni di dibattiti inutili è stata decisa la costruzione di nuovi centrali nucleari, ma ci vorranno (se tutto va bene) dieci anni, senza contare che si riaprirà il contenzioso su dove ficcare le scorie. O, ancora, bisognerebbe ridurre la pressione fiscale che in Spagna è al 36%, mentre in Italia è al 43% ed è aumentata negli ultimi due anni. Come ridurla? Per non aumentare il debito pubblico l’unica strada è tagliare le spese. Già, ma quali? Le spese dello Stato diventano anche i voti dei cittadini. E le elezioni si avvicinano…



