Cerved: troppe le imprese zombie

Nel 2021, lavorazione dei metalli, logistica e trasporti, chimica e farmaceutica, servizi finanziari e assicurativi, largo consumo sono i comparti con la percentuale più alta di aziende zombie, cioè in crisi, ma che possono risanarsi e rientrare a pieno titolo nel mercato risanate sul totale 2019. Lo indica lo studio Anatomia delle imprese zombie di Cerved, che analizza un fenomeno che impatta sul sistema produttivo con effetti differenziati su territori e settori.

I tassi di cessazione o procedura fallimentare più elevati riguardano sistema moda, mezzi di trasporto, costruzioni, mentre maggiori capacità di recupero per Trentino (61,2%), Abruzzo (55,7%), Calabria (55,2%), Sardegna (54,9%), Basilicata (53,5%), Piemonte e Sicilia (53,3%). Maglia nera alla Valle d’Aosta (44,2%), poi Liguria (47,2%), Toscana (47,5%), Umbria (48%), Molise (48,8%), Emilia Romagna (48,9%).

Secondo Cerved, le aziende zombie in Italia sono oltre 23 mila, ma nel biennio 2020-21 più di 40 mila si sono risanate Quasi il 70% di quelle finanziate dal Fondo di Garanzia è riuscito a rimettersi in sesto (contro il 43% delle non finanziate) grazie a 3,1 miliardi di euro, ma i restanti 1,3 miliardi investiti sono andati persi. Secondo Andrea Mignanelli, amministratore delegato di Cerved, «le imprese zombie generano una serie di asimmetrie nel nostro sistema produttivo, contribuiscono alla stagnazione della produttività, distraggono capitali e possono escludere dal credito imprese sane e startup. La crisi dovuta al Covid è stata gestita con aiuti e prestiti. Ora però servono interventi mirati, basati su strumenti, dati e tecnologie che permettono di fare uno screening corretto delle imprese su cui investire».

Le aziende zombie tornano sane più facilmente se finanziate dal Fondo di Garanzia, che dimostra la sua efficacia come strumento di stabilità e resilienza. Nel biennio 2020-21, infatti, a ricevere finanziamenti è stato il 28,8% (8.102) delle aziende considerate zombie nel 2019 e ben il 69,6% di esse (contro il 43,1% di quelle non finanziate) è riuscito a rimettersi in sesto grazie a 3,1 miliardi di euro di sovvenzioni. Tuttavia, il restante 30,4% è uscito dal mercato o è tuttora zombie, portando con sé 1,3 miliardi di finanziamenti andati perduti. In totale, nel biennio 2020-21 le aziende zombie risanate hanno superato le 40 mila unità.  Quella delle zombie è una categorizzazione più mobile di quanto si creda: attualmente, sulla base dei bilanci 2021 che sono gli ultimi disponibili, in Italia ce ne sono 23.262, composte dalle 12.456 che non si sono risanate (ancora zombie) e da 10.806 new entry, per il 45,9% (10.675) finanziate dal Fondo di Garanzia con 7 miliardi di euro a fronte di 20,4 miliardi di debiti finanziari iscritti a bilancio.

Le aziende che non sono in grado di operare secondo le normali condizioni di mercato, perché fortemente indebitate e incapaci di ripagare gli interessi sul debito attraversi i propri utili, tenute artificialmente in vita tramite prestiti e sussidi secondo Cerved è una presenza negativa, perché «distrae capitali che potrebbero garantire rendimenti più alti e maggiore produttività altrove, rende difficile l’accesso al credito a imprese sane e startup, contribuisce alla stagnazione e disincentiva l’ingresso di nuovi operatori, aumenta il costo del denaro ed espone maggiormente il sistema alla trasmissione di shock finanziari», aggiunge Mignanelli. «La crisi generata dal Covid è stata gestita con aiuti e prestiti. Ora però servono interventi mirati, basati su strumenti, dati e tecnologie che permettono di fare uno screening corretto delle imprese su cui investire».

Per ragioni strutturali, l’Italia è uno dei Paesi Ocse a più alta incidenza di imprese zombie, più che dimezzate a partire dalla crisi del 2012, ma di nuovo cresciute nel 2020 a causa della pandemia, quando il forte aumento delle aziende a rischio ha richiesto misure di sostegno che hanno mantenuto sul mercato realtà molto fragili finanziariamente: ancora a fine 2022, infatti, le procedure gravi come fallimenti, liquidazioni giudiziali e controllate risultavano in calo (7.207, -20,3% rispetto al fine 2021) nonostante i rincari dell’energia, l’inflazione e il rialzo dei tassi abbiano riacutizzato i problemi di liquidità delle imprese. Tuttavia, la ricerca di Cerved, che ha ricostruito l’evoluzione delle imprese zombie negli ultimi dieci anni integrando le serie storiche dei bilanci di tutte le società di capitale italiane, gli score di rischio (Cerved Group Score) e le chiusure di impresa, dimostra che i flussi in entrata e in uscita sono in realtà molto dinamici: nel 2020 le zombie erano schizzate a 40.218 (cifre che non si vedevano dal 2015) per effetto di 26.685 nuovi ingressi e questo nonostante più della metà (14.566) si fosse risanata quello stesso anno; nel biennio 2020-21, il 22,6% (6.361) usciva definitivamente dal mercato a seguito di procedure gravi (2.865) o risultava non più attivo (3.496), con uno strascico di 12,2 miliardi di euro di potenziali crediti deteriorati (NPL), mentre 7.474 aziende (26,6%) restavano nella stessa condizione.

Al contrario, nel 2021 la ripresa economica favoriva l’uscita dallo status di zombie di 27.762 imprese (con 71 miliardi di debiti finanziari risanati), ma altre 10.806 vi entravano. Quanto ai debiti finanziari, nel 2021 erano in aumento: 130,4 miliardi di euro (di cui solo 20,4 finanziati da Fondo di Garanzia) contro i 128,6 miliardi del 2019, nonostante il numero di imprese zombie fosse calato da 28.099 a 23.262; anche l’indebitamento medio era più alto (5,6 milioni contro 4,6). La mappatura delle imprese zombie in Italia, per settore e per regione Lavorazione dei metalli, logistica e trasporti, chimica e farmaceutica, servizi assicurativi, finanziari e non finanziari, largo consumo, elettromeccanica e sistema casa si rivelano i comparti con la più alta percentuale di aziende zombie risanate sul totale del 2019 (tra 60,2% e 52,7%), mentre quelli dove le imprese riscontrano più difficolta a rientrare a pieno titolo nel mercato sono sistema moda, mezzi di trasporto, costruzioni, carburanti, energia e utility, elettrotecnica e informatica (tra 43,5% e 47,9%).

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