Il rebus del vampirismo fiscale nell’Unione Europea

Una volta c’erano le svalutazioni competitive. Uno Stato, per esempio l’Italia, decideva autonomamente di abbassare il valore della propria moneta per riuscire a esportare di più. Era, con buona pace dei detrattori dell’euro, una via di fuga sciocca. È vero che le imprese potevano vendere più facilmente i loro prodotti all’estero, dato che riuscivano a farli pagare a un prezzo più favorevole. Ma allo stesso tempo la lira valeva meno anche in casa nostra: tutti prodotti importati, in primo luogo il petrolio e il gas, costavano di più e facevano lievitare i prezzi delle merci. Con la conseguente inflazione, che in poco tempo annullava i benefici della svalutazione della lira. Nel giro di un paio di anni tutto tornava come prima, dato che svalutare la moneta è un’operazione puramente contabile e non cambia la capacità delle imprese di competere con la propria attività. Chi ha nostalgia del listino della spesa che aumentava del 20% l’anno è bene che faccia un giro in Argentina e raccolga le opinioni di lavoratori e imprese del Paese sudamericano.

La possibilità di svalutare, in ogni caso, non sussiste più da quando c’è l’euro, per i Paesi che fanno parte dell’unione monetaria. In compenso, gli Stati europei si fanno la guerra, in amicizia s’intende, con la politica fiscale. Chi se lo può permettere, oppure chi vuole attirare nuovi investitori, tiene il carico delle tasse al minimo, strappando risorse agli altri Stati dell’Unione.

È il caso, per esempio, del Lussemburgo, che proprio di recente è stato al centro delle cronache per gli accordi al ribasso fiscale al limite del lecito con alcuni grandi gruppi europei (tra cui alcune tra le maggiori banche italiane). Da sempre il Lussemburgo è un paradiso per le società finanziarie, che nel granducato fanno base per eludere i balzelli a casa propria. Altra concorrenza fiscale al centro del dibattito o, meglio, delle insofferenze degli altri Stati, è quella dell’Irlanda (sede delle controllate europee di alcuni grandi americani, come Apple o Google) e dell’Olanda, dove da poco si è rifugiata la Fiat-Chrysler di Sergio Marchionne. Anche in questo caso lo spostamento della sede legale da Torino al Paese dei tulipani è stato deciso per la favorevole legislazione finanziaria, mentre per pagare meno al fisco, nel caso specifico quello italiano, ci si è rivolti alla fiscalità britannica. Ci sono poi Stati come la Polonia, che offre tappeti rossi alle imprese che vogliono aprire fabbriche e capannoni a Varsavia e dintorni. Oppure la Gran Bretagna, che ha fatto balenare la possibilità di aggiungersi ai paradisi low-tax, mentre Malta, Cipro e lo stesso Belgio studiano la possibilità di entrare nella squadra dei Paesi con tassazione più bassa. Risultato: le imprese che possono trasferiscono altrove le proprie fabbriche, dato che in ogni caso usufruiscono del mercato comune europeo.

È ovvio che un gioco di questo tipo non potrà durare a lungo senza mettere in discussione le stesse basi dell’Unione Europea. Paesi come Italia, Francia e Germania sono sul piede di guerra contro il vampirismo fiscale degli Stati fratelli (a parole). Ma fino a quando non ci sarà una unione politica e di bilancio, cioè fino a quando i budget degli aderenti alla Ue non saranno sotto la stessa guida, è molto difficile che chi si può permettere di tenere basso il carico fiscale rinunci alla possibilità di attrarre capitali. Politica che, bisogna ammettere, fino a quando non diventa concorrenza sleale (verifica che è materia del commissario alla Concorrenza, la danese Margrethe Vestager), non è proibita.

Il problema è del tutto politico: la concorrenza fiscale negli Stati federali esiste ovunque, ma all’interno di un sistema omogeneo. Gli Stati che fanno parte del sistema federale Usa, per esempio, hanno diritto a una politica fiscale autonoma, e le aziende si spostano da uno Stato all’altro, dove trovano più convenienza. Ma la guida economia del Paese e le redini della politica economica restano a Washington. Anche tra i Cantoni svizzeri c’è concorrenza fiscale, tanto da indurre i cittadini più facoltosi a spostare la propria residenza dove il fisco è più lieve. Ma il governo federale sovrintende. E se guardiamo a casa nostra, le imposte regionali sono differenti tra Lombardia e Sicilia, Puglia e Veneto. Ma sempre entro certi limiti, decisi dal Parlamento nazionale. Insomma, senza una regola che fissi dei paletti entro i quali si può tenere bassa la tassazione, il vampirismo continuerà. È lecito aspettarsi che sia trovata una soluzione entro breve tempo? Non troppo. I Paesi dell’Unione Europea sono insofferenti persino ai rilievi sulle loro leggi di budget, come dimostrano i casi di questi giorni, che riguardano Italia e Francia. Ma se non viene accettato neppure il giudizio sul bilancio di un anno, come si può credere che sia possibile imporre agli altri di rinunciare a una intera politica fiscale? parlamento-europeo

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