Che cosa fare a nowhere land

Urbanistica e riqualificazione

È inevitabile. Quando un ciclo produttivo finisce, quando un settore economico entra in crisi o quando si realizzano investimenti non coerenti con le effettive necessità aziendali, si creano le condizioni per un abbandono e disuso degli edifici strumentali e delle aree che li contengono. L’edilizia, vista dal punto di vista non residenziale, è un insieme di prodotti che chiamiamo opifici, capannoni, magazzini e che fin che servono sono utilizzati strumentalmente. Ma che quando non servono più altrettanto strumentalmente sono abbandonati. Ma se un’automobile non più adatta la rottamiamo e la avviamo a un processo di smontaggio, che ne recupera quasi tutte le parti e le ricicla, nel caso dei capannoni industriali e artigianali e degli edifici strumentali alla produzione non procediamo allo stesso modo. La rottamazione non è automatica. Eppure sono prodotti esattamente come gli altri, solo che hanno la caratteristica di essere immobili e di occupare suolo, di consumarlo senza alcuno scopo, essendo edifici dismessi. Il punto è che se nel mercato residenziale i prodotti edilizi (gli alloggi) trovano prima o poi una collocazione, dato che la domanda in ogni caso è presente e solo in rari casi si procede con demolizioni, che spesso riguardano stabili non adeguati dal punto di vista strutturale o impiantistico ed energetico, nel caso dei capannoni e delle aree dismesse le modalità produttive della nuova economia spesso non consentono di intervenire con sostituzioni e subentri, se non in rari casi e in condizioni tali che le destinazioni d’uso devono essere modificate, anche radicalmente. Ma la dimensione di molti di questi spazi rende spesso antieconomico intervenire, se non attraverso modalità innovative, come l’uso temporaneo degli spazi.

Terra di nessuno

Il tema delle aree dismesse vive da molti anni un dibattito rilevante per la dimensione del fenomeno, che tuttavia è poco analizzato e conosciuto. Tra il 2000 e il 2004 un progetto europeo ha censito in alcuni Paesi comunitari la dimensione del fenomeno, che conta 128 mila ettari in Germania (0,3% della superficie nazionale), 5 mila in Svezia (0,01%), 10 mila in Olanda (0,2%), 20 mila in Francia (0,04%) e 30 mila in Repubblica Ceca (0,4%). La superficie delle aree aumenta esponenzialmente in Romania, 900 mila ettari (3,8%), e in Polonia, 800 mila (2,5%). Nel Regno Unito il dato è disponibile solo per Inghilterra e Scozia, in cui l’estensione è rispettivamente di 66 mila (0,5%) e 11 mila ettari (0,1%). L’Italia non dispone di una mappatura completa e affidabile delle aree dismesse. Da un tentativo di proiezione nazionale su dati Corine Land Cover, la superficie dismessa italiana risulta pari a 13 mila ettari, lo 0,04% della superficie complessiva del nostro Paese. Le Regioni italiane non sono obbligate a raccogliere informazioni sul numero, l’estensione e la collocazione delle aree dismesse e la Lombardia è stata finora l’unica ad adoperarsi in tal senso: tra il 2008 e il 2010, in collaborazione con le Province e Assimpredil‐Ance, ha svolto un censimento delle aree dismesse in tutti i Comuni.

capannoni

Lombardia solitaria

Il censimento delle aree dismesse (consultabile sul sito della Regione e comprensivo di schede territoriali di dettaglio), conta complessivamente in provincia di Bergamo 58 aree dismesse, in provincia di Brescia 93 aree, a Como 93, a Cremona 40, a Lecco 34, a Lodi 21, a Mantova 28, a Milano 139, a Monza e Brianza 40, a Pavia 76, a Sondrio 37, a Varese 86 per un totale di 745 aree su circa 2.300 ettari di territorio, pari allo 0,1% della superficie regionale. Un dato non certo trascurabile, ben raccontato dallo stillicidio di numeri e di schede, documentatissime, che censiscono nel dettaglio dimensioni e caratteristiche dei siti, compresa la presenza di bonifiche necessarie che dovrebbero essere realizzate da chi ha inquinato (secondo le norme) ma che in realtà non realizza nessuno. L’economia circolare tanto promossa da un anno e mezzo a livello europeo funziona e può funzionare molto bene per i prodotti di consumo, ma per gli edifici dismessi e le aree produttive dismesse le norme e le proposte non bastano. Bisogna pensare ad altri sistemi e altre modalità innovative per affrontare il problema. Che è rilevante perché, come recita il sito della Regione Lombardia, «le aree industriali dismesse rappresentano un potenziale danno territoriale, sociale ed economico e possono costituire un pericolo per la salute, per la sicurezza urbana e sociale e per il contesto ambientale e urbanistico». Analizzare alcuni esempi può far capire la dimensione del problema. A Saronno (Varese) secondo il Pgt ci sono circa 430 mila metri quadrati di aree dismesse, pari al 4% della superficie comunale, un valore 40 volte superiore alla media regionale e nazionale. Un valore che riguarda, tra gli altri, aree industriali di grande dimensione, come gli ex stabilimenti della Isotta Fraschini (che finì la produzione nel 1949), della Cemsa (sigla di Costruzioni Elettro Meccaniche di Saronno, azienda italiana di costruzioni elettromeccaniche e di locomotive a vapore ed elettriche, in funzione dal 1925 al 1948) o della De Angeli Frua (azienda tessile nata nel 1896 che ha chiuso l’attività nel 1968). Grandi aree, grandi problemi. Nonostante lo sviluppo di azioni di partecipazione attiva dei cittadini (a Saronno è ben nota la vicenda del Forum Isotta, un pioniere gruppo di lavoro sul possibile riutilizzo di queste aree) a distanza di molti anni risulta difficile intervenire. Ma proprio l’esempio di alcune buone pratiche che in Lombardia hanno trovato collocazione grazie alla sensibilità delle amministrazioni comunali e all’Osservatorio regionale può dare alcuni spunti. Pratiche che il Consiglio regionale ha inserite nei suoi compendi formativi.

Uso e riuso

Al di là dei riusi previsti per nuovi insediamenti produttivi, molto interessanti sono le azioni di riattivazione messe in campo per esempio a Milano con la proposta, sancita da un protocollo d’intesa tra l’Associazione Temporiuso, il Comune di Milano e il Diap‐Politecnico di Milano, che dopo la mappatura degli edifici abbandonati, effettuata tra aprile e giugno 2012, ha avviato una comunicazione e interazione pubblica con i proprietari, le associazioni culturali, cittadini ed esperti internazionali che ha portato alla realizzazione di bandi per il riuso temporaneo, una buona pratica diventata ottimo esempio a livello nazionale. In provincia di Bergamo una buona pratica è stata il concorso Riusi industriali per la riconversione di tre insediamenti industriali dismessi. Un ottimo esempio, sempre in provincia di Bergamo, è la riconversione per usi temporanei e culturali delle ex cartiere Pigna ad Alzano Lombardo, dove è attivo oggi Spazio Fase, una realtà vivace e attiva su molti fronti sia di carattere culturale che commerciale e fieristico, così come Temporary Pasubio, un progetto di riuso temporaneo di un ambito particolarmente critico di Parma chiamato Comparto Pasubio, che ha al proprio interno un interessante complesso industriale oggi in totale stato di abbandono. Un progetto nato nel 2014 per volontà dell’Ordine degli Architetti di Parma che, insieme al Comune e alla Fondazione Architetti, ha promosso inizialmente un workshop di progettazione partecipata che oggi è diventato un progetto a tutti gli effetti. O come la recente esperienza molto positiva del Progetto Switch di Imperia, anche in quel caso promosso dall’Ordine degli Architetti (del quale abbiamo già parlato su queste pagine nel numero di novembre 2016). Ma sono ancora troppo pochi gli esempi e troppo poche le buone pratiche. Serve una maggiore capacità di incidere sulle condizioni in grado di promuovere vere azioni diffuse sul territorio e serve soprattutto conoscenza. Colpisce, per esempio, che solo la Lombardia abbia prodotto un censimento delle aree dismesse. Una buona pratica non seguita dalle altre regioni. Se c’è qualcosa da dismettere è questa inattività conoscitiva e sulle aree dismesse sarebbe necessario che tutte le Regioni italiane seguissero l’esempio della Lombardia. Sarebbe un bel passo avanti nella conoscenza e risoluzione di questo problema.

(Carlo Lorenzini)

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