Scosse a orario continuato

Anche se non sempre li avvertiamo, ogni giorno in Italia si registrano 34 terremoti. Un dato che dovrebbe spingere governo e imprese ad adottare misure di prevenzione. Perché il disastro è in agguato

Da molti anni è attiva la Rete sismica nazionale italiana, che pubblica i parametri dei terremoti registrati e revisionati dagli analisti del Centro nazionale terremoti dell’Istituto nazionale di geofisica e vulcanologia. I dati, consultabili online con uno strumento interattivo per la selezione e la creazione di mappe dei terremoti all’indirizzo: https://iside.rm.ingv.it, fanno riferimento a oltre 300 stazioni di rilevamento e a un sistema, ormai ben collaudato, che è in grado di aggiornare la situazione ogni due minuti. Dal 2005 a oggi sono stati registrati oltre 100mila terremoti, ovvero oltre 12mila eventi all’anno, con una media di circa mille al mese. Insomma: circa 34 terremoti ogni giorno. Le oscillazioni possono ovviamente essere elevate, per cui si passa da giornate con pochi eventi a quelle con centinaia di eventi. Per la cronaca, il centomillesimo evento, da quando è stato istituito questo servizio nel 2005, è stato registrato il 26 aprile 2013 alle 2:53 (ora italiana) e ha avuto magnitudo 0.7, ovvero al di sotto della soglia dell’avvertibilità, nella zona di Città di Castello, in Umbria, dove da tempo è in atto una sequenza sismica molto ricca di terremoti. Le mappe che si ricavano da Iside evidenziano come il territorio italiano sia ovunque molto attivo, con l’unica eccezione della Sardegna. In particolare tutta l’Italia peninsulare, con una fascia pressoché continua di epicentri dalla Pianura padana alla Sicilia. Ma anche l’arco alpino risulta attivo, particolarmente nei settori occidentale e orientale, e il Mar Tirreno, caratterizzato da terremoti molto profondi (alcune centinaia di chilometri). Secondo uno studio riservato della Protezione civile, che pianifica l’emergenza in caso di terremoti, il numero di crolli, di case inagibili e di abitazioni danneggiate, oltre che di vittime e feriti potenziali, nel caso di un forte terremoto, sono preoccupanti: 160mila a Catania, 112mila a Messina, 85mila a Reggio Calabria, 46mila a Catanzaro, 32mila a Benevento, 19mila a Potenza, 74mila a Foggia, 24mila a Campobasso, 21mila a Rieti, 17.500 a Belluno, per citare solo i capoluoghi più esposti e potenzialmente più colpiti. A questi danni vanno poi sommati gli effetti nelle città vicine, che possono aggravare il bilancio del potenziale disastro. Un disastro che è sotto i nostri piedi quotidianamente e che, ad ogni evento reale, mette in luce la fragilità del nostro territorio, ma soprattutto il tanto tempo sprecato in prevenzione, precauzioni e prescrizioni costruttive dall’ultimo grave terremoto dell’Irpinia, del 1980. L’Aquila e l’Emilia sono lì a ricordarcelo, come peraltro anche la Lunigiana. Quest’ultimo caso è, in particolare, molto interessante perché le prescrizioni antisimiche di quei luoghi hanno fatto sì che nessun edificio sia crollato, e che le strutture esterne abbiano potuto resistere bene. Ma anche dove non si è intervenuto, per esempio sulle partizioni interne, si sono verificati crolli interni e gravi condizioni di inagibilità, nonostante l’attenzione all’antisismicità dei muri perimetrali degli edifici. Recentemente una rete di monitoraggio internazionale, alla quale partecipa il dipartimento di Matematica e geoscienze dell’Università di Trieste, ha acceso un segnale d’allarme sull’Italia centrale e sul Meridione, in particolare sulla Calabria e la Sicilia orientale. D’altronde, basta consultare quotidianamente il bollettino Iside per osservare quante scosse vi sono, molte delle quali non sentite dalla popolazione, ma anche molte ben avvertite, perché oltre la soglia minima di percezione. Chiunque, analizzando i dati, può scoprire che nelle zone del terremoto dell’Emilia del 2012, quest’anno l’attività sismica è stata comunque rilevante, anche se al di sotto della soglia di danno. «Non si registrano danni a persone o a cose», è la frase con la quale i bollettini raccontano un’attività tellurica che nel nostro Paese è in continua evoluzione e della quale dobbiamo essere consapevoli, per mettere in atto politiche di intervento adeguate a garantire una sufficiente sicurezza alle nostre città, grandi e piccole. Un sisma di magnitudo 7 nell’Appennino meridionale, ovvero di una intensità rilevante, ma ritenuta possibile perché già registrata in passato, potrebbe contare fino a 11mila morti e più di 15mila feriti. I dati delle medie mondiali per queste soglie di rischio si fermano a 6.500 morti e 20mila feriti. In Giappone a 50 morti e 250 feriti. La grande differenza nei numeri e nelle medie sta tutta nelle tecniche di costruzione impiegate e agli investimenti nella prevenzione. L’Italia fa scarsa prevenzione e l’esito delle regole e delle normative costruttive, basate su mappe sismiche non adeguate, si è evidenziato nel terremoto emiliano del 2012, che ha colpito anche alcune aree del Veneto e della Lombardia. Quello è territorio non solo di case, ma di capannoni e di strutture produttive, che hanno evidenziato tutti i limiti delle modalità costruttive della prefabbricazione spinta all’italiana. E se si ripercorrono i terremoti e le gestioni delle emergenze dal 1968 a oggi, attraverso i dati della Camera dei Deputati è possibile quantificare come la gestione dell’emergenza e la ricostruzione finora sono costate allo Stato 135 miliardi di euro (valori attualizzati al 2008), dei quali 92 stanziati dalla pubblica amministrazione. Gli effetti sui conti pubblici sono ancora oggi di tutta evidenza: per il terremoto del Belice in Sicilia (1968) gli impegni di spesa finanziati da leggi e decreti termineranno nel 2018, per l’Irpinia (1980) nel 2020, per le Marche e l’Umbria (1997) nel 2024, per il Molise (2002) nel 2023, per l’Abruzzo (2009) nel 2033. Soltanto per il Friuli (1976) il capitolo di bilancio è stato archiviato definitivamente nel 2006. La prevenzione è dunque uno degli elementi sui quali intervenire e da promuovere attraverso specifiche politiche e azioni, compreso il sostegno agli incentivi governativi che considerano gli interventi antisismici al pari delle spese di ristrutturazione e dunque defiscalizzabili oggi al 50%. Ma da più parti si chiede che tale soglia sia portata al 65%, per agevolare la loro realizzazione e soprattutto per permettere una grande azione di prevenzione e precauzione che potrebbe allineare in alcuni anni l’Italia alle medie internazionali di rischio, con meno vittime potenziali, meno crolli e meno danni patrimoniali. Un beneficio per tutti, per le famiglie, per le imprese, per l’economia, per il patrimonio edificato. Anche in prospettiva di quanto accaduto e che potrebbe accadere con le decisioni del Governo in merito al sostegno alle famiglie e alle imprese in caso di terremoto. Tutti ricordano, infatti, come poche settimane prima del terremoto in Emilia, l’esecutivo aveva proposto la riforma della Protezione Civile, affermando che lo Stato non si sarebbe più fatto carico dei danni subiti dai cittadini in caso di catastrofe naturale. Ciò che è accaduto in Emilia è emblematico, dato che se la ricostruzione è a carico dei danneggiati, il problema è il ruolo che possono assumere le compagnie assicurative, tra polizze che potrebbero divenire molto elevate e  in generale una politica mutualistica ancora tutta da definire. Il Governo Letta propone di rendere obbligatoria la copertura assicurativa contro le catastrofi naturali per le aziende, con l’adozione di un sistema che riduca l’aggravio sulle imprese. È evidente che il patrimonio edificato è un bene privato, ma è anche parte della competitività di un Paese. Prevenzione, dunque, ma anche assistenza e assicurazioni adeguate, perché va trovato un punto di equilibrio, tra pubblico e privato, che permetta di rendere adeguate scelte che privatizzano il rischio. Ma le imprese, in caso di eventi eccezionali, devono comunque poter contare su una facilità di accesso alle protezioni da rischi, per esempio attraverso una parziale defiscalizzazione dei premi assicurativi contro le catastrofi. Prevenzione può significare molte cose, dagli interventi sulle strutture alla sottoscrizione di polizze contro i rischi. Ma è evidente che deve essere al centro dell’azione del Governo la sburocratizzazione delle procedure e una vera sussidiarietà nelle azioni di intervento post-sisma. L’esempio più chiaro è l’accelerazione che vi è stata nella risoluzione degli impasse nella gestione del post terremoto a L’Aquila. E in questo senso l’esempio del Friuli è sempre lì a ricordarci che se vogliamo, possiamo e sappiamo farlo. Con l’impegno di tutti.

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