Smart cities, a che punto siamo?

Sono molti anni che si parla di smart cities e i bandi ministeriali dello scorso anno hanno contribuito a promuovere, presso tanto soggetti prima poco attenti o propensi alle novità, lo sviluppo di una politica “ intelligente” applicata delle nostre città e ai nostri territori. Le smart cities sono le città del futuro, e nella visione europea, come in quella mondiale, sono quelle città in grado di essere al contempo intelligenti, sostenibili, inclusive. Come? Utilizzando gli strumenti dell’innovazione tecnologica per sviluppare servizi alle persone e alle imprese, dell’integrazione per migliorare le politiche di mixitè urbana e sociale e della partecipazione per estendere sempre più il concetto di democrazia e di scelta. Le più innovative smart cities in Europa e nel mondo parlano una lingua nella quale l’innovazione e la sostenibilità diventano le lenti attraverso le quali guardare al futuro. In Italia, grazie alla spinta data dal MIUR, si parla oggi sempre più di smart cities and communities, ovvero non solo di città, viste troppo spesso solo come hardware, ma anche e sorpattutto di comunità, ovvero di cittadini e di persone, che nelle città vivono, lavorano, si organizzano, partecipano o vogliono partecipare al miglioramento della qualità della vita ai diversi livelli. Ma di smart cities si parla spesso anche un po’ a sproposito, confondendo il fine con il mezzo e pensando che per trasformare una città in “smart” basti ricorrere a qualche investimento sulle reti tecnologiche, magari dotando i lampioni di ripetitori wifi, e il gioco è fatto. Nulla di tutto ciò. Se infatti da un lato molte città in Italia si sono mosse verso una “smartizzazione” del loro sviluppo, va anche riconosciuto che, al di là del tentativo fatto dal MIUR con tre bandi per quasi un miliardo di euro usciti nel 2012, manca in generale una visione strategica, in modo particolare per quanto attiene alla cosiddetta “agenda digitale”. Questo strumento, istituito ormai più di un anno fa dal Ministero dello sviluppo economico assieme a molti altri ministeri, prevede una serie di linee di azione verso l’inclusione e la partecipazione, la conoscenza e il monitoraggio del territorio, la qualità e il costo dei servizi, l’imprenditorialità e l’innovazione sociale e l’identità, la cultura e il saper fare. Secondo gli auspici del Ministero, la città è una comunità intelligente che usa le tecnologie non solo per migliorare negli ambiti già altrove sperimentati, ma anche per valorizzare la propria identità specifica, rinnovare senza eliminare le proprie tradizioni culturali e di patrimonio artistico e naturale, per rilanciare il proprio saper fare più antico e costruirne di nuovo. Ma se è così, perché parliamo di mancanza di visione strategica? Perché ad oltre un anno di distanza ancora non si vede una chiara strategia e visione, nonché modelli operativi e schemi organizzativi per avviare le nostre città verso una politica “smart”. L’agenda digitale dovrebbe costituire il prodromo per sviluppare le smart cities e a tale scopo si occupa di  identità digitale, PA digitale, istruzione digitale, sanità digitale, divario digitale, pagamenti elettronici e giustizia digitale. Tutto digitale, dimenticandosi forse che chi usa i servizi e vive la città è quanto di più analogico esista, ovvero le persone, i cittadini. Se leggiamo i programmi delle città italiane che più di altre hanno avviato politiche smart, possiamo notare che la concentrazione è soprattutto rivolta a promuovere azioni nel campo del risparmio energetico, dei network energetici e dello sviluppo della banda larga, della mobilità elettrica e sostenibile e della trasformazione dei pali della luce in “snodi di intelligenza diffusa”. Ma ben poco si parla di cittadini, di servizi e di partecipazione. E’ ovvio che per sviluppare città smart servono reti fisiche (ad esempio quelle tecnologiche) e azioni di miglioramento della qualitò della vita, ma queste azioni non passano solo dalla realizzazione di interventi di efficientamento energetico o di innovazione tecnologica delle reti. Quello è hardware, puro hardware che fa crescere i bilanci dei soggetti, spesso grandi multinazionali, che operano in quei mercati, ma che poi non si traducono in effetti tangibili per i cittadini, perché hardware sprovvisto di adeguato software. Come avere un pc con le tecnologie più all’avanguardia ma senza dotarlo di programmi adeguati e dandolo in mano ad utenti non particolarmente formati ed istruiti. E qui sta il punto nodale: le smart cities sono un veicolo per sviluppare la futura civiltà, una civiltà nella quale la popolazione dovrà sempre più essere integrata, connessa, ma anche inclusa e accudita. Se nel futuro a breve il 70% della popolazione abiterà nelle città è evidente che serve produrre sistemi di relazioni che consentano di gestire la complessità attraverso politiche inclusive, in primo luogo, ma anche sostenibili e attrattive. E il problema è che le città oggi sono tutt’altro che virtuose. Il 50% della popolazione mondiale che attualmente vive in un contesto urbano sta consumando circa il 75% dell’energia planetaria e producendo addirittura l’80% delle emissioni a effetto serra. Le città intelligenti sono una scelta obbligata per la sostenibilità del pianeta, ma la sostenibilità da sola non basta. Vale a dire che devono essere sviluppati centri urbani intelligenti, dove grazie alla tecnologia sia possibile ottenere trasporti (pubblici e privati) più efficienti, risparmi energetici consistenti, un calo drastico delle emissioni inquinanti e servizi pubblici più efficienti e accessibili per il cittadino. Quest’ultimo deve essere messo al centro delle politiche “smart”. Come ha di recente specificato in un suo libro Michele Vianello, direttore del parco tecnologico VEGA, “il punto di partenza della Smart City è insegnare l’innovazione al cittadino, il quale si trova al centro del processo di un cambiamento fatto di social network, di cloud computing, di device mobili, di cose nuove ma anche vecchie, che vanno riassemblate”. L’idea è che partendo da questo punto di vista, quello del cittadino educato, sia possibile riprogettare le città, guardando al futuro. E invece fino ad oggi si è proceduto per piccoli pezzi, per stralci, per parti, senza una visione ampia e strategica di questa trasformazione. Si è preferito guardare all’hardware e meno al software. E ciò di cui il cittadino “smart” ha bisogno sono soprattutto le informazioni, veicolate attraverso canali e strumenti innovativi, ma è nell’informazione che sta la vera caratteristica “smart” di una città. Sono molte le città in Europa e nel mondo che hanno avviato politiche serie per diventare smart cities, e tutte quelle che hanno raggiunto i migliori risultati hanno posto alla base delle loro azioni i cittadini, producendo città tecnologiche e interconnesse, ma anche sostenibili, confortevoli, attrattive, sicure. La sicurezza ad esempio è fattore di attrattività e di inclusione, come la mobilità sostenibile è sinonimo di accessibilità. Ciò che queste città dimostrano – da Amsterdam ad Amburgo, da Friburgo a Masdar City, da Caofeidian a Seattle – è che le loro policy di riqualificazione e risanamento viaggiano a pari passo con l’attenzione al cittadino, alle sue esigenze, formandolo, affiancandolo, accudendolo nel processo di apprendimento. Perché una smart city è una città che punta sul miglioramento della gestione dei processi urbani e della qualità della vita dei cittadini, azioni che raggiungono gli obiettivi se i cittadini stessi fanno parte del processo. In Italia il processo è appena iniziato, ha subito alcuni stop ma in alcuni  casi mostra notevili potenzialità. Supportiamole, perché non è solo il futuro, ma è anche un futuro che si apre a investimenti in vari campi e settori. Un futuro smart anche per la nostra economia.

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