Facciamo la rivoluzione (digitale) a scuola

Da una ricerca condotta dall’Università Cattolica di Milano si evince che in Italia solo il 7% può vantare una connessione a internet. Se si pensa che nel Regno Unito questa percentuale è del 100%…

 

C’è ancora chi pensa che la transizione al digitale della scuola italiana si realizzi semplicemente attraverso l’acquisizione di dispositivi tecnologici. Per alcuni osservatori infatti – per non dire di certi decisori politici – la modernizzazione e l’aggiornamento della didattica si compie investendo in computer, tablet, video proiettori e lavagne attive multimediali (LIM). E se invece l’acquisto dei device fosse l’ultimo dei problemi?

Mi rendo conto, la mia può sembrare una provocazione. Eppure, alla luce dei dati emersi da una recente ricerca condotta dall’Università Cattolica di Milano per conto di Scuola Digitale l’urgenza parrebbe un’altra: la banda larga.

Esaminando la suddetta indagine sul campo si evince, infatti, che in Italia: a) solo il 7% delle scuole può vantare una connessione a internet tale da abilitare una didattica tecnologicamente aumentata in ciascuna delle loro classi; b) la percentuale sale al 10,96 se si considerano le scuole in cui ci si connette alla rete esclusivamente in alcune aule o laboratori debitamente attrezzati; c) per quanto concerne gli istituti secondari, quelli interamente connessi raggiungono il 13%.

Sono numeri che dovrebbero far riflettere specie se si tiene conto che, per esempio, nel Regno Unito ormai il 100% delle scuole è in grado di assicurare una connessione sufficiente e affidabile in ogni aula. E soprattutto se si pensa che, secondo le stime indipendentemente realizzate dall’Università Bocconi e dal Politecnico di Milano, un investimento compreso tra i 7 e i 9 miliardi di euro sarebbe sufficiente per fornire banda e dispositivi a tutte scuole pubbliche del paese con livelli di qualità pari a quelli d’Oltremanica. Una cifra considerevole, certo. Ma non per uno paese che intenda investire seriamente sul suo futuro.

Tuttavia, la disattenzione al problema-scuola in Italia non si misura solo attraverso parametri economici. Maggiore rilievo (anche mediatico) meriterebbe, tra l’altro, quel dibattito – troppo spesso riservato a specialisti e addetti ai lavori – dal quale emerge palesemente come lo sviluppo di nuovi modelli di didattica tecnologicamente aumentata possa realisticamente svilupparsi solo a condizione di riprogettare spazi e ruoli all’interno dell’ambiente scolastico.

Dopotutto, la tecnologia – come del resto qualsiasi strumento che media e articola le nostre azioni nel mondo e le nostre relazioni verso gli altri – non non è neutra. Comprenderne le logiche di fondo, oltre che le pratiche di vita e gli abiti concettuali da essa innescate, significa avviare una profonda quanto necessaria riflessione su cosa significhi oggi abitare il mondo. E significa anche intuire come debba cambiare un ambiente per ospitare le nuove strategie didattiche in grado di intercettare gli stili di apprendimento dei cosiddetti nativi digitali.

La tendenza a imparare ricercando ed esplorando, la consuetudine a una comunicazione multicodicale (testo, video, audio, ecc.), la accentuata indole cooperativa e molte altre caratteristiche individuate come prerogative distintive di questa nuova generazione non possono più convivere con una istruzione erogata in classi tradizionali, tramite lezioni frontali incentrate sull’autorità del testo e su nozioni da assimilare individualmente per “assorbimento”.

La “rivoluzione in aula” può dunque cominciare solo se l’introduzione della tecnologia è accompagnata da un progetto globale che, dalla banda larga alla disposizione dei banchi, sappia “spazializzare” le dinamiche e le caratteristiche pratiche e concettuali delle nuove forme di interazione, collaborazione e apprendimento.

Realizzare queste idee implica pertanto la progressiva evoluzione delle aule “storiche” in spazi (reali e virtuali) simili a laboratori, in grado di stimolare gli alunni a trasformarsi in “piccoli ricercatori”. Esistono diversi modelli per tradurre in atto tale epocale transizione, ma tutti condividono la necessità di incentivare una didattica (inter)attiva e partecipata funzionale anche a sviluppare capacità critiche e competenze trasversali, sempre più richieste dal “mondo de lavoro”. Suscitare interesse e attenzione sulla complessità e l’urgenza dei temi qui solo accennati credo sia il dovere di quanti ritengono che il futuro di un paese inizi a prendere forma proprio nelle aule delle proprie scuole.

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