Educare alla scienza per costruire democrazia

La notte del 4 marzo scorso è andata in fiamme la Città della Scienza di Napoli. Da ogni parte sono giunte testimonianze e iniziative di sincera e partecipata solidarietà. E per dirla tutta, c’è stato persino uno sconsiderato scribacchino che dalle pagine di un quotidiano (Il Foglio, 7 marzo) ha sentenziato: “Dovevano bruciarla prima”. Dopotutto, aggiungeva lo scribacchino, in quei capannoni “si propagandava l’evoluzionismo, una superstizione ottocentesca ancora presente negli ambienti scientifici”.

In realtà, tra quelle mura inghiottite dal rogo di “parascientifico” non c’era nulla. Anzi, dentro quei capannoni si coltivava la scienza come un bene pubblico. Giovani e adulti che frequentavano quegli spazi potevano comprendere concretamente che la scienza è molto più di una serie di teorie e formule difficili da digerire. Sperimentando in prima persona, chiunque poteva capire che fare scienza è piuttosto una pratica che educa come poche altre all’analisi critica, all’importanza del confronto, al rigore come impegno etico e alla valenza conoscitiva dell’errore.

Proprio in questo senso il filosofo Karl Popper sosteneva che la comunità scientifica rappresenta un modello di “società aperta” da cui la politica dovrebbe sotto molti aspetti prendere esempio. E in una sua celebre pagina scriveva: “Soltanto se lo studente fa la diretta esperienza di quanto facile sia errare e di quanto difficile sia fare anche un piccolo progresso nel campo della conoscenza, soltanto in quel caso egli può percepire il significato dei criteri di onestà intellettuale, può giungere al rispetto della verità e al disprezzo dell’autorità e della presunzione”.

La scienza nasce infatti come sapere pubblico, rivedibile e controllabile: pubblico in quanto rivedibile e rivedibile in quanto controllabile. Tre caratteristiche che si rivelano un potente antidoto contro qualsiasi forma di deriva autoritaria. Chi impara a chieder conto delle idee altrui tanto quanto a esibire evidenze a sostegno delle proprie, difficilmente sarà disposto ad accogliere per buona o per vera una qualsiasi immotivata imposizione.

In quella che al tempo di Galileo era nota come Repubblica della Lettere e che noi oggi siamo soliti chiamare comunità scientifica, infatti, non si è mai deciso per alzata di mano. Ciò che invece è sempre contato – per dirla con il matematico pisano – sono sempre state le “sensate esperienze” e le “certe dimostrazioni”. In altre parole, è la competenza che rende effettivamente liberi i ricercatori:  liberi di assentire e di dissentire. E senza quella competenza la Repubblica delle Lettere non può che degenerare in qualche insidiosa declinazione del principio di autorità.

Un’idea questa condivisa anche Thomas Jefferson; anzi, il terzo Presidente degli Stati Uniti la riteneva addirittura fondamentale per non far fallire il cosiddetto esperimento democratico. Jefferson, infatti, non aveva dubbi: la democrazia è il modello politico che meglio di ogni altro protegge la libertà degli individui, ma non basta a se stessa.

Nel suo Bill for More General Diffusion of Knowledge (1778), lo affermava senza indugio: “L’esperienza insegna che persino nelle migliori forme [di governo] coloro cui è affidato il potere lo hanno col il tempo e con un lento processo pervertito in tirannide; e si ritiene che il mezzo più efficace per scongiurarlo sia di illuminare, per quanto è fattibile, la mente della massa della gente”.

Una illuminazione che, secondo Jefferson, trovava soprattuttonell’atteggiamento scientifico la mentalità più consona per quei cittadini che non volessero ridursi a diventare sudditi di un qualsiasi potere iniquo o illegittimo. In quest’ottica, i capannoni della Città della Scienza erano (e mi auguro che presto torneranno a essere) un incubatore di democrazia, una palestra per cittadini, la metafora di una polis in cui si lavora tutti insieme per costruire la libertà di ciascuno.

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