Dissesto idrogeologico: i soldi stanziati non vengono spesi

Il 13,2% della popolazione, il 12,1% del territorio italiano, il 14,3% delle scuole e il 21,8% dei beni culturali italiani. Queste sono le cifre reali e certificate da Ispra di chi e che cosa è in pericolo di dissesto idrogeologico, relativamente ai soli eventi alluvionali di elevata e media rischiosità. Se trasformiamo le percentuali in numeri assoluti si tratta di circa 8 milioni di abitanti, quasi 37 mila chilometri quadrati, circa 10.400 scuole e ben 41.500 beni culturali. A parte il territorio, tutto il resto ha un nome e cognome. Ce l’hanno gli abitanti coinvolti così come le scuole e come i beni culturali. Sono persone e luoghi, vite ed edifici, il nostro vero patrimonio. La mappa del dissesto alluvionale in Italia non è una mappa geografica, è sociale e culturale. E il rischio idrogeologico non fa solo i conti con il numero elevato di eventi e il valore dei danni, ma anche con la popolazione e con il nostro patrimonio scolastico e culturale esposto a tali eventi. Ma non è solo una mappa culturale e sociale, è anche una mappa economica e produttiva. Sempre secondo i dati Ispra, le unità locali delle imprese esposte a rischio alluvioni in Italia sono 186.266 (3,9%) nello scenario a pericolosità idraulica elevata, 576.535 (12%) nello scenario a rischiosità media e 879.364 (18,3%) nello scenario a livello più basso. La stima degli addetti esposti nello scenario di pericolosità media è pari a 2.214.763 (13,5%). Non stiamo parlando di un quadro pericoloso legato a pochi e sparuti casi, ma mediamente del 12%-14% di quanto esistente in Italia, sia raffigurato in termini di popolazione, di addetti, che di risorse scolastiche o culturali.

Chi rischia di più

In sintesi, circa un ottavo del nostro Paese è a rischio alluvioni e alcune regioni e province sono più esposte, come Emilia Romagna, Toscana, Veneto, Lombardia e Liguria, sia in termini di popolazione che di unità locali delle imprese. Alcune aree e città esprimono, poi, dati che sono allarmanti sotto il profilo del rischio e delle potenziali conseguenze. È il caso di Firenze, città che secondo la Banca dati Vir-Iscr ha 1.258 beni architettonici, archeologici e monumentali esposti a rischio idraulico nello scenario attuale di pericolosità media, tra cui la Basilica di Santa Croce, la Biblioteca Nazionale, il Battistero e la Cattedrale di Santa Maria del Fiore, che furono già, assieme a tanti altri beni culturali, duramente colpiti durante l’alluvione del 1966. Per quanto riguarda Roma, i beni culturali architettonici, archeologici e monumentali a rischio idraulico nello scenario a scarsa probabilità di accadimento sono 2.190 e l’area inondata includerebbe anche il centro storico tra cui Piazza Navona, Piazza del Popolo e il Pantheon. Roma peraltro presenta dati allarmanti sulla situazione di degrado del suolo dovuta alla scarsa manutenzione, con il numero di voragini che sono passate dai 21 eventi registrati al 31 marzo del 2017 a 43 sprofondamenti nello stesso mese del 2018.

Pioggia sul Colosseo
Pioggia sul Colosseo

La Capitale bucata

Secondo quanto analizzato e studiato da Ispra in un recente rapporto sullo stato idrogeologico della Capitale intitolato Primo Rapporto su rischio alluvioni, frane e cavità sotterranee di Roma, nato dalla collaborazione tra Autorità di Distretto Idrografico dell’Italia centrale, Italia Sicura e Ispra, la Capitale sprofonda. Lo ha fatto nel 2017 al ritmo di una voragine ogni tre-quattro giorni, con un trend che, se prosegue a questi ritmi, avrà una media di un evento ogni 36 ore. Basti pensare che negli ultimi otto anni il numero medio delle voragini a Roma è cresciuto in maniera esponenziale, da 128 (16 eventi ogni anno) a più di 720 (oltre 90 all’anno). Le aree della Capitale maggiormente interessate dalla formazione di grandi voragini si concentrano nella porzione orientale della città. In particolare il Municipio V, il Municipio VII, il Municipio II (quartieri Tuscolano, Prenestino, Tiburtino), insieme al centro storico e le aree dell’Aventino, del Palatino e dell’Esquilino rappresentano le zone più colpite. Nella porzione occidentale di Roma invece il Municipio che conta più voragini è il XI, seguito dal XII (quartieri Portuense e Gianicolense). La causa principale della formazione delle voragini capitoline è la presenza di numerose cavità sotterranee, di origine antropica e scavate dall’uomo a vario titolo, soprattutto per l’estrazione di materiali da costruzione. Questi vuoti costituiscono in molti casi una intricata rete di gallerie che Ispra ha censito e la cui mappatura conta oggi 32 chilometri quadrati che giacciono sotto il tessuto urbano capitolino. Ma molte aree sono ancora sconosciute.

Fiume Po in piena
Fiume Po in piena

Vulnerabilità

Come agire per arginare questi problemi e questi fenomeni? Ovviamente la parola d’ordine più importante è prevenzione. Ma, come al solito, in Italia è una parola poco usata, mentre quella più utilizzata è emergenza. Lavoriamo costantemente in regimi di emergenza post evento e mai con sistemi di prevenzione per agire preventivamente sui fattori di vulnerabilità. All’estero, in alcuni Paesi europei spesso colpiti da inondazioni dovute per lo più allo straripamento dei grandi fiumi nel corso di piogge eccezionali, si agisce spesso promuovendo interventi di drenaggio e di realizzazione di bacini di laminazione in grado di ridurre l’impatto dell’acqua, rallentandone il flusso e regolando il deflusso al fine di limitare i danni. Un esempio di queste scelte lo si può vedere in alcune aree sperimentali attivate, per esempio, in Francia lungo alcune arterie stradali nelle quali, in corrispondenza di incroci, le rotatorie diventano luoghi nei quali al posto delle statue o degli immancabili fiori che abbelliscono spesso le rotonde stradali, vengono realizzati piccoli bacini di drenaggio che, se sommati, complessivamente costituiscono un ottimo freno e rallentamento al deflusso delle acque. Alcuni di questi esempi sono visibili in Provenza, nell’area di Aix-en-Provence. Il territorio provenzale, la sua particolarità e qualità, viene tutelato preventivamente con questi interventi che mitigano il rischio idraulico e tendono a trasformarlo in regimi controllati, con installazione di tubazioni per il drenaggio, paratie e saracinesche, assieme all’utilizzo di sistemi di contenimento della spinta dell’acqua, come i gabbioni metallici contenenti sassi, che da noi spesso sono utilizzati in territori difficili come quelli montani, ma che in Francia invece trovano spesso applicazione in pianura e nelle aree urbane e periurbane.

Zone idonee

Dal punto di vista di come l’Italia affronta il rischio idraulico, la Direttiva Alluvioni (decreto legislativo 49/2010) indica nel Piano di Gestione del Rischio Alluvioni (Pgra) lo strumento per valutare e gestire il rischio di alluvioni, attraverso l’individuazione di idonee misure o interventi. La Direttiva Alluvioni ha imposto una standardizzazione dei percorsi e delle modalità di definizione e rappresentazione del quadro della pericolosità e del rischio e dell’identificazione delle misure atte a raggiungere gli obiettivi di riduzione delle potenziali conseguenze negative sui beni esposti. In particolare viene specificato che il Pgra deve contemplare tutti gli aspetti della gestione del rischio di alluvioni, ossia prevenzione, protezione, preparazione, ripristino e revisione post-evento, tenendo conto delle caratteristiche dei bacini interessati. Tali aspetti sono codificati ed esplicitati nella Guidance Document numero 29 (Guidance for Reporting under the Floods Directive) della Commissione Europea. Le quattro categorie di misure individuate in base all’aspetto della gestione del rischio a cui fanno riferimento sono:

  • le misure di prevenzione, che agiscono sul valore e sulla vulnerabilità degli elementi esposti presenti in un’area allagabile;
  • le misure di protezione, realizzate per ridurre la probabilità d’inondazione e agiscono per lo più sul modo in cui si formano e si propagano le piene;
  • le misure di preparazione, realizzate per migliorare la capacità della popolazione e del sistema della Protezione civile di affrontare gli eventi (attività di previsione, allertamento, gestione dell’emergenza ai sensi della legge 584/1994), realizzazione di protocolli di intervento da adottare in
  • le misure di ricostruzione e valutazione post-evento, che riguardano le misure attivabili nel post-evento per il ritorno alla normalità e per l’acquisizione di elementi informativi sulle dinamiche dell’evento e sugli effetti a essi associati nelle aree inondate.

    Alluvione in Sicilia, novembre 2018
    Alluvione in Sicilia, novembre 2018

Il problema principale dell’attuazione di queste misure riguarda le competenze amministrative, che coinvolgono in misura diversa Protezione civile, Autorità di bacino distrettuali e Regioni, e i cui indirizzi operativi sono stati definiti all’interno della direttiva del 24 febbraio 2015, dunque ben cinque anni dopo quella sulle alluvioni. In sintesi, abbiamo gli strumenti normativi, ma ci mettiamo molti anni a trovare le regole per farli funzionare e, soprattutto, ci concentriamo così tanto sull’individuazione delle misure per il raggiungimento degli obiettivi di riduzione del rischio che pensiamo che gli indicatori siano sufficienti a gestire il rischio stesso. Ma, come ricorda Ispra, è necessario che a ciascuna misura o gruppo di misure sia associato un livello di priorità o una tempistica di realizzazione. E sulla realizzazione, purtroppo, qualche limite e forse qualcosa di più di qualche limite lo abbiamo.

Ma i soldi ci sono

Secondo Italiasicura, il fabbisogno finanziario totale messo in evidenza nel Piano Nazionale di opere e interventi e di un piano finanziario per la riduzione del rischio idrogeologicopresentato esattamente un anno fa dall’ex-sottosegretario alla Presidenza Eleonora Boschi e dal ministro dell’Ambiente Gian Luca Galletti somma 29 miliardi di euro per un fabbisogno complessivo di opere lungo 11.108 interventi, di cui 1.340 con lavori in corso, per un fabbisogno appunto pari a circa 29 miliardi di euro di cui 12,9 già programmati tra fondi europei, nazionali e regionali. Il piano finanziario per il periodo 2015-2023 prevede 9,9 miliardi di euro (tra prestiti Bei-Cbe, recupero da precedenti programmazioni e interventi già finanziati) a cui vanno aggiunte altre risorse (circa 3 miliardi) che le Regioni hanno messo a disposizione da fondi propri. Ma il report dice anche che il 90% delle opere è ancora da progettare e le recenti iniezioni di 780 milioni di euro per nuovi interventi in alcune regioni, fondi stanziati all’ultimo dall’ex-ministro alle Infrastrutture Graziano Delrio, non servono a nascondere questo dato allarmante.

Il ritardo rispetto all’Europa, ma soprattutto rispetto alle esigenze di un territorio che per un ottavo è a rischio idraulico, è molto ampio e per certi versi sembra incolmabile. Si spera che il nuovo Governo sia in grado di proseguire l’azione positiva intrapresa in questi anni, ma con maggiore determinazione ed efficacia, ma certamente l’inizio di legislatura non fa ben sperare. E sul rischio idraulico non si può giocare a «io speriamo che me la cavo». Abbiamo piani e strumenti, tecnologie e necessità di intervento. Non sprechiamo l’occasione di innovare veramente la nostra politica territoriale e attivare filiere operative e realizzative che coinvolgano positivamente tutti i partner potenziali, dai produttori di materiali e soluzioni ai rivenditori, dai progettisti alle imprese. La politica non può non vedere questa urgenza e se non la vedrà saremo costretti ancora una volta a sentire i mea culpa postumi e le ormai bisunte litanie del «faremo». Sul rischio non si scherza, non ci possono essere verbi coniugati al futuro, c’è solo il tempo presente per garantirci il futuro. Facciamo, ora, adesso, subito. Per 8 milioni di motivi, ognuno con un nome e cognome.

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