Non c’è solo il ponte Morandi da ricostruire

Sulla tragedia di Genova si sono scritte e dette molte cose. In gran parte vere. Da quanto si comprende, i fattori diretti che hanno portato al disastro sono due: una manutenzione insufficiente e altrettanto insufficienti controlli. Sono stati questi gli anelli deboli della catena   e sono da imputarsi al gestore (Atlantia) e allo Stato, che rimane il proprietario dell’infrastruttura e deve sorvegliare che le infrastrutture siano sicure. Tra l’altro, è quanto prevede il contratto di concessione delle autostrade.

È vero che negli anni scorsi qualche ingegnere incaricato di analizzare il viadotto Morandi aveva storto il naso e aveva consigliato interventi di irrobustimento dei tiranti, tanto che erano in programma lavori di irrobustimento delle strutture proprio per questo autunno. Ma non risulta che nessun esperto si sia spinto a lanciare un allarme, a segnalare la possibilità di un crollo. Insomma, nessuno ha detto a chiare lettere: fermatevi perché c’è rischio di un crollo. Questo, ovviamente, non elimina le responsabilità del gestore, che si aggiunge alla mancanza di adeguati controlli da parte del ministero dei Trasporti, a prescindere dal colore politico del titolare insediato. Insomma, siamo di fronte a due inefficienze sommate.

Eppure non sono le uniche. Difficile, infatti, non aggiungere un’altra inefficienza, quella della politica, quella che frena gli investimenti in grandi opere. Se Genova si fosse dotata di un percorso alternativo (la famosa bretella o altro), bloccato da anni di contestazioni dei comitati, ora forse i morti sarebbero meno perché una parte di traffico sarebbe stata dirottata sulla nuova e più sicura struttura. E, inoltre, la città non si troverebbe tagliata in due. Se, insomma, gli ingegneri incaricati di analizzare la situazione del ponte Morandi sono stati probabilmente troppo cauti nell’esprimere la propria opinione sul ponte crollato, se da anni il ministero dei Trasporti non ha compiuto il suo dovere di controllore come deve essere, l’altra faccia della medaglia è la sindrome Nimby (sigla che sta per not in my backyard, cioè non nel mio cortile), quella che impedisce la realizzazione delle opere necessarie per rimodernare il Paese. È anche la dimostrazione che le grandi opere non sono inutili, anche se la loro necessità emerge solo quando c’è un’emergenza come quella di Genova.

Mancati controlli, negligenza, sindrome del «no» a qualsiasi intervento. Ma siamo sicuri che questo valga solo per le grandi opere pubbliche, per porti, ferrovie e autostrade? In Italia c’è un’altra emergenza, quella che riguarda del patrimonio edilizio, costruito in gran parte negli stessi anni del boom economico, gli anni Sessanta, con materiali che ora sono obsoleti. Tanto che ogni anno qualche palazzina crolla nell’indifferenza generale. Sono edifici destinati a fare la stessa fine del ponte Morandi se non si interviene in fretta a ricostruire e riqualificare. Peccato che sia stato bloccato, quindi, il piano destinato a intervenire sulle periferie. Ma chissà che la tragedia di Genova non serva come campanello d’allarme.

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