Perché la città ideale non è una chimera

    Nonostante lo smog e un po’ di foschia, dal 39° piano di Palazzo Lombardia (sede della Regione) si vede tutta Milano. E pensare che fino a qualche anno fa quest’edificio non esisteva neanche: inaugurato nel gennaio 2010, il grattacielo alto 161 metri è stato costruito in quattro anni ed è un simbolo: insieme a Piazza Gae Aulenti, al Bosco Verticale e alle più lontane Tre Torri, sono i nuovi simboli di una città che si rinnova e che cresce, non solo in altezza. Dal 39° piano si vede tutta Milano e se ne parla anche con più cognizione di causa. Lì in cima si è tenuto il convegno La città ideale, organizzato da Paris Region Enterprises e Promosalons con il patrocinio dell’Ambasciata di Francia in Italia. E allora un filo rosso lungo più di  850 chilometri lega Milano a Parigi, due città regione, due cuori pulsanti del Vecchio Continente.

    Palazzo Lombardia
    Palazzo Lombardia

    La grande Milano e la grande Parigi. Due metropoli impegnate a diventare due città ideali. La prima ha ospitato Expo, richiama sempre più turisti stranieri, e continua a crescere non solo in altezza, ma  anche sottoterra: la Metro 5 inaugurata nel 2013 è stata estesa (in quanto a fermate) fino al 2015, mentre la M4 è work in progress (e lo sarà fino al 2022). La seconda, che ha una rete metropolitana seconda solo a Londra, è candidata alle Olimpiadi 2024. E la fiaccola è più vicina dopo il gran rifiuto di Roma.

    La città ideale è il risultato di un’equazione complessa, di una concertazione possibile tra sostenibilità ambientale, qualità della vita, mobilità e connessione intra ed extra urbana. Facile a dirsi, difficile a farsi: sarebbe forse più semplice fondare dal nulla una nuova città, e costruirla da subito come luogo ideale, come un ambiente adatto allo sviluppo delle attività umane, dove l’uomo possa goderne la qualità e avvicinarsi alla felicità.

    Milano, città ideale
    Milano, città ideale

    Bene, per tendere alla città ideale siamo chiamati a ripensare l’urbanistica. Come? Abbassando i tempi di connessione tre la città-pianeta (o perlomeno i suoi punti nevralgici) e i suoi centri minori-satelliti. L’obiettivo? Mezz’ora di percorrenza, grazie a un green belt intelligente. E infine cosa mancherebbe solo? Il paesaggio. E allora si devono ricostruire anche gli elementi di paesaggio che diano maggiore godibilità visiva; si deve perseguire la bellezza, così come la intendeva Kant. Da un filosofo tradizionale a un industriale filosofo: Adriano Olivetti parlava della fabbrica di vetro, costruita a misura d’uomo, e prima di lui l’urbanista inglese Ebenezer Howard teorizzava la città-giardino. Il seme è stato gettato, innaffiato e ha dato i frutti: si chiamano “riqualificazione“. Già, perché riqualificare nel segno della sostenibilità ambientale significa (ri)concepire la città, darle nuova vita e una nuova pelle, quella di luogo ideale dove vivere e lavorare con qualità. Il cantiere della città ideale è aperto.

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