Debito pubblico e banche: il dubbio capitalista

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Uno spettro si aggira per l’Europa, anzi, per il mondo. Non è, come ai tempi di Carl Marx, la rivoluzione comunista. Al contrario, è lo spettro del dubbio capitalista. Tutto è cominciato nel 2007, con il fallimento di Lehman Brothers. La grande banca americana, insolvente sotto una montagna di titoli subprime da lei stessa creati, non ha avuto la fortuna di essere salvata dall’allora ministro del Tesoro Usa, Henry Paulson. E, purtroppo, la riacquistata consapevolezza che una banca può andare a gambe all’aria, e con essa i soldi di chi ha investito, ha avuto diversi risultati negativi.

Il primo è la recessione che ne è seguita, a causa della chiusura dei rubinetti del credito. La seconda è che alla recessione è seguita una lunga fase, non ancora conclusa, di stagnazione. A questa prospettiva le banche centrali hanno risposto sostanzialmente stampando moneta, attraverso l’acquisto di debito pubblico statale. Prima ha cominciato la Federal Reserve. Poi, l’ha imitata la Boj, la Banca centrale giapponese. Infine, superando le resistenze dei tedeschi, si è aggiunta la Bce, con Mario Draghi pronto a qualsiasi cosa (il famoso «whatever it takes»).

Detto fatto, nel giro di una manciata di anni il debito pubblico mondiale è arrivato a superare i 200mila miliardi di dollari (dato aggiornato alla scorsa estate). Il debito, di per sé, non è un problema se uno se lo può permettere. È il lavoro delle banche concedere credito a cittadini e imprese perché questi, poi, restituiscono i soldi prestati, con gli interessi. Il problema è che per restituire i soldi uno deve guadagnarli. Ed è proprio quello che non sta succedendo. Nonostante l’acquisto di miliardi di dollari o euro di titoli di Stato in cambio di carta moneta, riproposti ancora di più a marzo, l’economia del mondo stenta. È vero, la Cina continua a crescere, ma molto meno. Il Pil degli Stati Uniti aumenta, ma già si prevede uno stop per il prossimo anno. Per non parlare di Giappone e Europa, dove la stagnazione (zero inflazione, poca o nulla crescita) è palpabile per quasi tutti.

Ora, e qui torniamo allo spettro, si avanza un dubbio: e se iniettare nel sistema tutti quei soldi fosse servito a poco per l’economia reale? Se è davvero così, ragiona qualcuno, a lungo andare gli Stati (e a ruota le imprese) non riusciranno a restituire i soldi ricevuti. Se questa convinzione si farà davvero strada, vedremmo di nuovo crack a catena e, forse, il caos. Se poi a lanciare questo allarme non siamo noi, come è avvenuto, un’istituzione come la Bri (Banca dei regolamenti internazionali)… Be’, siete legittimati a ricorrere subito a qualsiasi gesto scaramantico.

(Federico Mombarone)

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