Che cosa insegna all’Italia il terremoto in Nepal

Terremoto in Nepal
Terremoto in Nepal

Il terremoto in Nepal insegna che non bisogna dimenticarsi dell’emergenza sismica. Anche in Italia.

Federico Della Puppa

Nella classifica mondiale dei Paesi a rischio terremoti, l’Italia detiene una posizione poco invidiabile. Negli ultimi dieci anni su 1.886 eventi che in tutto il mondo hanno superato la soglia di magnitudo 4, ovvero quella oltre la quale si creano danni a cose e persone, l’Italia ne ha registrati 239. Alcuni di questi sono tragicamente legati anche a numerose vittime, come nel caso del terremoto dell’Aquila, ma sono soprattutto legati ai gravi danni al patrimonio edificato, che sono consistenti soprattutto perché avvengono su edifici e strutture che il più delle volte non sono state progettate e costruite per sopportare le sollecitazioni sismiche. Negli ultimi dieci anni in Italia, secondo i dati registrati dell’Ingv (l’Istituto Nazionale di Geofisica e Vulcanologia) ci sono state 132.240 scosse di terremoto, 26.475 nel solo ultimo anno. In pratica, ogni giorno in Italia negli ultimi dieci anni la terra ha tremato mediamente 36 volte al giorno, ogni 40 minuti. Nell’ultimo anno il valore è raddoppiato, una scossa ogni 20 minuti. Per la maggior parte, e per fortuna, le scosse non sempre sono avvertibili o spesso non sono avvertite: sono molto basse di intensità o profonde. Tuttavia, il numero di scosse è uno dei più elevati al mondo. In altre parti del pianeta, infatti, le scosse sono di gran lunga minori per numero, ma spesso di intensità molto più significativa, come evidenzia la mappa mondiale dei terremoti.

Ma l’area del Sud dell’Europa, che comprende Italia e Grecia, è una delle più esposte ai movimenti tellurici ed è anche un’area, in particolare l’Italia, dove la prevenzione non ha mai giocato un ruolo importante, purtroppo. Questo si traduce in una spesa elevatissima da parte dello Stato per intervenire prima durante le fasi dell’emergenza, e poi per stanziare i fondi per la ricostruzione.

Terremoti nel mondo
Terremoti nel mondo

Ma quanto mi costi?

A fronte di una spesa complessiva di oltre 180 miliardi dal dopoguerra a oggi, pari a una media annua di circa 2,7 miliardi di euro, utilizzati per interventi di superamento delle emergenze, messa in sicurezza e ricostruzione. Il fondo per la prevenzione del rischio sismico (istituito nel 2009 dopo la terremoto in Abruzzo) ha stanziato meno di 1 miliardo di euro, 965 milioni per l’esattezza, per una spesa ripartita in sette anni: in media circa 140 milioni di euro all’anno. In sostanza, i terremoti provocano danni per 2,7 miliardi l’anno, ma lo Stato investe solo 140 milioni per la prevenzione. Sicuramente molto al di sotto delle reali esigenze di messa in sicurezza del patrimonio edificato. Secondo analisi del Dipartimento della Protezione Civile, questa cifra è inferiore all’1% del fabbisogno necessario per il completo adeguamento sismico di tutte le costruzioni, pubbliche e private, e delle opere infrastrutturali strategiche. Sicuramente è un aiuto che può diventare importante per favorire una diversa cultura del progetto e della realizzazione, delle modalità di costruzione e di manutenzione straordinaria degli immobili, per promuovere una diversa cultura della prevenzione sismica sia da parte della popolazione che degli amministratori pubblici. Nonostante l’esiguità delle cifre messe a disposizione, i criteri e gli obiettivi individuati dalla Commissione di esperti del rischio sismico, che ha definito target e criteri generali per un’efficace azione di prevenzione, riguardano la mitigazione del rischio sismico attraverso azioni e interventi solo marginalmente sviluppati negli anni passati. Per esempio, sono stati eseguiti studi di «microzonazione sismica», per la scelta dei luoghi idonei in cui costruire. Oppure, con contributi economici diretti al rafforzamento o miglioramento sismico per le strutture sull’edilizia privata.

Un passo in avanti

L’azione dello Stato, rispetto alla prevenzione, ha avuto una inaspettata accelerazione, dovuta molto probabilmente sia agli eventi legati alle evidenti negligenze che a L’Aquila hanno causato il crollo della Casa dello studente, con il suo triste conto dei morti, sia alle sentenze che hanno indicato che la responsabilità umana nelle morti da terremoto non è un elemento secondario. Dunque, la prevenzione assume, finalmente, un ruolo importante, perlomeno sulla carta. E a tale scopo l’attenzione dello Stato si è concentrata sulla classificazione del territorio, basata sull’intensità e sulla frequenza dei terremoti del passato, nonché sull’applicazione di speciali norme per le costruzioni nelle zone sismiche. La legislazione antisismica italiana oggi è allineata alle più moderne normative a livello internazionale e prescrive norme tecniche in base alle quali un edificio debba sopportare senza gravi danni i terremoti meno forti e senza crollare i terremoti più forti, salvaguardando prima di tutto le vite umane.

Il problema è che fino al 2003 il territorio nazionale era classificato in tre categorie sismiche, sulla base di decreti ministeriali emanati dal ministero dei Lavori Pubblici tra il 1981 ed il 1984, ovvero dopo i due terremoti del Friuli (1976) e dell’Irpinia (1980). Secondo quella classificazione, erano a rischio sismico 2.965 comuni italiani su un totale di 8.102, corrispondenti al 45% della superficie del territorio nazionale e al 40% della popolazione. Nel 2003 i criteri della nuova classificazione sismica si sono basati su studi più recenti, in particolare sul calcolo della probabilità che un territorio sia interessato in un certo intervallo di tempo (generalmente 50 anni) da un evento che superi una determinata soglia di intensità (magnitudo). La novità più importante è che è sparito il territorio «non classificato», che è oggi la zona 4, all’interno della quale è facoltà delle Regioni prescrivere l’obbligo della progettazione antisismica. Alle zone è attribuito un valore dell’azione sismica utile per la progettazione, che fa riferimento a specifiche prescrizioni.

Terremoto in Nepal
Terremoto in Nepal

Regioni in ordine sparso

Sulla base del decreto, alcune Regioni hanno classificato il proprio territorio nelle quattro zone proposte. Altre Regioni, invece, hanno adottato solo tre zone (zona 1, 2 e 3) ma introducendo, in alcuni casi, sottozone per meglio adattare le norme alle caratteristiche di sismicità. Un ulteriore elemento di vincolo è stato dato dall’entrata in vigore delle Norme Tecniche per le Costruzioni del 2008, nelle quali per ogni costruzione ci si deve riferire a una accelerazione di riferimento propria, individuata sulla base delle coordinate geografiche dell’area di progetto e in funzione della vita nominale dell’opera, legando dunque la pericolosità potenziale della zona anche alla tipologia di opera. Anche questo è un passo avanti nella prevenzione, ancora molto va fatto, perché la dimensione dei fenomeni, in tutti i sensi, è molto rilevante. L’analisi della mappa della sismicità riguarda un territorio che nelle zone di elevato rischio sismico (1, 2A e 2B) coinvolge 10 milioni di abitazioni, circa 5 milioni di edifici residenziali, 750 mila non residenziali e 22 milioni di abitanti. È evidente che di fronte a queste cifre e al fatto che ogni 40 minuti, negli ultimi dieci anni, ci sono state scosse nel nostro Paese, alcune delle quali devastanti, è necessario agire secondo logiche diverse da quella dell’intervento ex post, puntando sulla prevenzione e sull’utilizzazione di materiali, soluzioni e tecnologie che consentano di mettere in sicurezza l’esistente e costruire i nuovi edifici secondo le norme più adeguate.

Anche perché non vi sono solo i danni e i relativi costi dal punto di vista degli interventi di messa in sicurezza e ripristino, ma anche impatti negativi sul Pil. Perché ai 180 miliardi impiegati per il ripristino e la ricostruzione post-evento bisogna aggiungere i costi difficilmente quantificabili relativi alla perdita di valore economico del patrimonio storico, artistico, monumentale. In questo senso, l’Ingv evidenzia come in Italia, il rapporto tra i danni prodotti dai terremoti e l’energia rilasciata nel corso degli eventi è più alto rispetto a quello che si verifica normalmente in altri Paesi ad elevata sismicità, quali la California o il Giappone. Per esempio, il terremoto del 1997 in Umbria e nelle Marche ha prodotto un quadro di danneggiamento (32mila senza tetto e danno economico di circa 10 miliardi) confrontabile con quello della California del 1989 (14,5 miliardi di dollari), malgrado fosse caratterizzato da un’energia circa 30 volte inferiore. Ciò è dovuto principalmente all’elevata densità abitativa e alla fragilità del nostro patrimonio edilizio, soprattutto di quello storico-architettonico.

Paghiamo ancora il Belice

L’evento del 1997 in Umbria e nelle Marche ha fortemente danneggiato circa 600 chiese e in particolare la Basilica di S. Francesco d’Assisi. Secondo il ministero dell’Ambiente, il costo della prevenzione secondo un piano nazionale per la sicurezza e manutenzione del territorio è quantificabile in 1,2 miliardi di euro l’anno per 20 anni. Eppure sono stati stanziati solo 140 milioni l’anno fino al 2016. Una evidente discrepanza. L’Ance stima che dal 1991 al 2011 siano stati finanziati interventi per circa 10 miliardi di euro, meno di 500 milioni l’anno, ma guardando al passato (Belice 1968, Friuli 1976, Irpinia 1980, Marche e Umbria 1997, Molise e Puglia 2002, Abruzzo 2009, Emilia Romagna 2012) i sette maggiori terremoti degli ultimi 45 anni hanno visto stanziare oltre 110 miliardi di euro, dei quali 50 miliardi solo per il terremoto dell’Irpinia. Ma la ricostruzione ha tempi troppo lunghi e solo quella del Friuli è oggi conclusa, con la definitiva chiusura delle erogazioni, mentre terminerà soltanto nel 2018 quella del Belice, esattamente 50 anni dopo l’evento. Tempi e modi incompatibili con i vincoli attuali di bilancio, ma soprattutto con la necessità di recuperare nel più breve tempo possibile l’operatività dei luoghi, residenziali e non residenziali. Il terremoto dell’Emilia Romagna insegna che di fronte alla volontà di ripartire e ricostruire immediatamente la macchina burocratica è capace di frenare le risorse umane e finanziarie pronte a ripartire. E la stessa macchina burocratica ha evidenziato numerose falle nel sistema di erogazione e intervento in Abruzzo, al punto che a cinque anni da sisma non si ha ancora una esatta cognizione dei tempi della ricostruzione. Tutto ciò crea difficoltà, ma anche apprensione, di fronte alla necessità di ridare immediatamente capacità di sopravvivenza ai luoghi, che significa operatività economica e residenzialità attiva. Dunque, bene le regole, le prescrizioni e quanto serve alla definizione e realizzazione di interventi adeguati alle esigenze, ma anche procedure e modalità che permettano di intervenire tempestivamente e in modo agile, rispettando ovviamente le regole, ma senza quelle lungaggini che, nel post terremoto, sono vissute dalle famiglie e dagli imprenditori come un doppio danno. Infine, non va dimenticato il ruolo che gli incentivi possono e devono avere nel promuovere una diversa attenzione e cura del nostro patrimonio edificato. Gli sgravi fiscali per gli interventi di messa in sicurezza antisismica sono uno strumento utile allo scopo. Fino alla fine del 2014, in base alla Legge 90/2013 è stata introdotta la detrazione del 65% per interventi antisismici, percentuale che dovrà scendere al 50% per i lavori effettuati nel 2015. Tuttavia, la detrazione è concessa solo per interventi su edifici ricadenti nelle zone sismiche ad alta pericolosità individuate con i codici 1 e 2, quindi escludendo la zona 3. E’ un primo passo, ma è evidente che se si vuole puntare alla sicurezza del territorio, alla salvaguardia delle vite umane e alla riduzione della spesa pubblica per interventi ex post, va costruito un quadro di supporto alla prevenzione che permetta di avviare nel nostro paese una vera e propria rivoluzione sulla sicurezza antisismica. Un obiettivo che non riguarda solo il patrimonio edificato, quanto soprattutto la salvaguardia delle vite umane, anche in ricordo e in rispetto dei tanti, troppi, morti che queste catastrofi hanno causato in epoche recenti e che, se non tutti, perlomeno in gran parte con una adeguata prevenzione potevano essere evitati.

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