Amianto: le ragioni della giustizia, con la «g» minuscola

amianto
Tetto con Eternit

A volte la giustizia si scrive con la «g» minuscola. È il caso della sentenza sull’amianto dell’Eternit. Da una parte le ragioni del diritto, che applicano alla lettera la norma scritta. Dall’altra, le ragioni del sentimento, della rabbia, delle vittime. È Giustizia la prescrizione? No, è solo giustizia. E le promesse del governo di aggiustare la legge sulle prescrizioni, ammesso che arrivino in porto, non potranno risarcire, comunque i familiari dei 2.500 cittadini di Casale Monferrato, non solo i lavoratori della fabbrica, colpiti dalla particolare forma di tumore causata dalle fibre di amianto.

Certo, era difficile, un tempo, immaginare che questo minerale si sarebbe trasformato in un’arma letale. L’amianto, 1.300 volte più sottile di un capello umano, è stato impiegato  come isolante di edifici, tetti, navi. E come materiale per l’edilizia, utilizzato per tegole, pavimenti, tubazioni, vernici, canne fumarie. Non solo: è stato l’elemento principe per le tute dei vigili del fuoco, presente nelle vernici, nelle parti meccaniche di un’auto, ma nelle corde, plastica e perfino cartoni. Poi, si è scoperto che l’inalazione anche di una sola fibra può causare il mesotelioma e altre patologie mortali, come il carcinoma polmonare. Il problema è che la sua nocività è empiricamente accertata, ma difficile da inserire in un  processo come quello dell’Eternit, da un punto di vista legale, perché il reato prescritto è quello di disastro colposo. E, per il diritto penale, il nesso di causalità ed effetto resta il vero scoglio da superare nei processi di tipo ambientale. Insomma, se invece di disastro fosse stato imputato l’omocidio colposo, sarebbe stata tutta un’altra storia. Tra l’altro, quello della Eternit non è l’unico caso di flop della Giustizia (con la G maiuscola). Il reato di disastro ambientale ha trasformato in un puzzle anche il processo, trenta anni fa, sulle responsabilità della Givaudan e Hoffmann La Roche nell’incidente alla Icmesa di Seveso, avvenuto nel 1976. E, poi, ha ingolfato i processi sul petrolchimico di Marghera e di Gela. In questa colla giuridica si è arenato il giudizio di colpevolezza su Stephan Schmidheiny, l’imprenditore svizzero accusato di conoscere i pericoli provocati dall’amianto e che, forse per la legge del contrappasso, si è trasformato con gli anni in strenuo difensore dell’ambiente. Ma che non si è mai presentato in aula per il processo.

E adesso? Cerchiamo di fare giustizia, almeno con la «g» minuscola. Nel solo Piemonte si contano circa 100mila siti a rischio amianto. Un buon punto di partenza è intervenire per bonificare il territorio. Ne guadagnerebbero la salute, le imprese. E, non da ultima, la coscienza.

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